Ungheria. Dieci anni senza giustizia per Andy Rocchelli e Andrej Mironov

by Andrea Sceresini * | 24 Maggio 2024 9:05

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Sull’assassinio di Rocchelli e Mironov nel Donbass ad opera dell’esercito ucraino ora sappiamo tutto, ma riaprire il procedimento contro i responsabili in questo momento appare difficile. Secondo i genitori «prima o poi dovrà essere riaperto, e si dovrà agire contro i comandanti dei due reparti che quel giorno erano presenti sulla collina». Oggi il ricordo del reporter a Pavia

 

Esattamente dieci anni fa, il 24 maggio del 2014, Andy Rocchelli e Andrej Mironov sono stati assassinati mentre facevano il loro dovere di reporter sul fronte di Sloviansk, in Ucraina. Oggi, nonostante il silenzio che avvolge questa vicenda, sulle loro morti sappiamo praticamente tutto, compresi i nomi di chi le ha provocate ma probabilmente non sarà mai condannato.

Quel giorno Andy e Andrej erano in compagnia di un fotografo francese, il 23enne William Roguelon, che come loro era lì per documentare le sofferenze della popolazione civile durante gli scontri tra i miliziani pro-Putin e l’esercito di Kiev. Nel pomeriggio i tre erano saliti su un taxi e avevano raggiunto i sobborghi meridionali della città, all’epoca controllata dalle truppe separatiste. Il driver aveva posteggiato accanto al muro di cinta della fabbrica di ceramiche “Zeuss”, dopodiché i giornalisti si erano incamminati verso il passaggio a livello che separava gli avamposti filorussi dalle postazioni ucraine, attestate sulla vicina collina di Karachun.

È STATO IN QUEL MOMENTO che qualcuno ha iniziato a sparare. I cronisti, assieme al tassista e a un abitante del luogo, si sono rifugiati in un fossato accanto alla strada, dove sono stati bersagliati da una fitta scarica di colpi di mortaio. «Fu una pioggia di 20-30 proiettili esplosi a ritmo serrato, con la chiara volontà di sopprimerci», racconterà William, che ancora oggi porta sulle gambe i segni di numerose ferite. A pochi metri da lui, Andy e Andrej rimarranno uccisi sul colpo: Rocchelli aveva 30 anni, veniva da Pavia ed era stato tra i fondatori del collettivo Cesura; Mironov, classe 1954, era invece un dissidente russo impegnato nella difesa dei diritti umani.

Tra il 2018 e il 2021 si è svolto in Italia un lungo e burrascoso processo a carico del soldato della Guardia nazionale ucraina Vitalij Markiv, che il 24 maggio si trovava con la sua unità sulla collina di Karachun. Accusato di «concorso in omicidio», Markiv è stato prima condannato e poi assolto. Sia nella sentenza di primo grado che in quella d’appello, poi confermata dalla Cassazione, si afferma tuttavia che i colpi di mortaio che uccisero Andy e Andrej furono «sparati dalla collina Karachun ad opera dei militari dell’Armata Ucraina», e che l’attacco avvenne «senza alcuna provocazione e offensiva», in esecuzione di «un ordine illegittimamente dato dai comandanti» e «in violazione delle norme che mirano alla protezione dei civili».

A KARACHUN la Guardia nazionale non aveva in dotazione mortai, ma a presidio della collina c’era in quei giorni anche un secondo reparto, ben più numeroso e abbondantemente munito di artiglieria: la 95ma Brigata aviotrasportata dell’esercito ucraino. Sempre nel 2021, dopo infinite ricerche e numerosi buchi nell’acqua, con il collega Giuseppe Borello siamo riusciti a rintracciare uno dei reduci di quella formazione. L’uomo, che in seguito ha disertato e oggi vive in Europa occidentale, faceva parte della “Rozved rota”, la squadra delle sentinelle, e la sua trincea si trovava in una posizione esattamente frontale rispetto alla fabbrica “Zeuss” e al passaggio a livello verso il quale si erano incamminati Andy, Andrej e William. «Ho ancora la scena davanti agli occhi – ci ha raccontato nel corso di una lunga intervista poi trasmessa da RaiNews24 -. Alcuni civili erano scesi da una macchina e si erano gettati nel fossato, in mezzo alla boscaglia. Non so chi di noi li abbia avvistati, ma ricordo le parole del nostro comandante: “Quelle persone non devono stare lì”. Poi abbiamo iniziato a sparare con le armi pesanti». E ancora: «Non so perché il nostro comandante abbia dato l’ordine di sparare. Non c’erano state provocazioni e quegli uomini erano vestiti in abiti borghesi, non rappresentavano una minaccia per noi. I primi colpi esplosero lontani, oltre la fabbrica di ceramiche, poi il tiro si spostò verso l’incrocio (dove era posteggiato il taxi, ndr), infine i proiettili si abbatterono sul fossato. Si sparò come si fa in guerra, per uccidere».

LA DINAMICA descritta dal testimone coincide perfettamente sia con le ricostruzioni dei magistrati che con i ricordi di William Roguelon. Per uccidere Andy e Andrej, sempre secondo l’intervistato, i militari della 95ma Brigata avrebbero utilizzato un mortaio automatico di fabbricazione sovietica, il Vasilek, la cui presenza a Karachun è stata involontariamente confermata proprio da uno dei comandanti della Guardia nazionale, Andrej Antonishak, che nel 2021, durante un’intervista in difesa di Markiv, ha dichiarato: «Alla zona industriale (cioè nella zona della fabbrica di ceramiche, ndr) [i nostri soldati] usavano i Vasilek da 82 mm».

Eppure, nonostante tutto ciò, l’affaire Rocchelli è oggi un caso chiuso. Dopo l’inizio dell’invasione russa, nel febbraio di due anni fa, l’ipotesi di un nuovo processo appare addirittura utopistica, perché istruirlo significherebbe trascinare davanti alla sbarra gli ufficiali di un esercito alleato che il nostro Paese supporta politicamente e militarmente. A cominciare dall’ex comandante della 95ma Brigata, l’uomo che nel racconto del nostro testimone avrebbe dato l’ordine di sparare contro i giornalisti e che nel maggio 2014 era a capo di tutte le truppe ucraine presenti a Karachun: è il generale Mychajlo Zabrodskyj, che dopo essere stato eletto parlamentare nel 2019 (e aver fatto parte del Gruppo per le relazioni interparlamentari con la Repubblica italiana), tra l’aprile 2023 e il febbraio 2024 è stato promosso vice comandante in capo delle Forze armate di Kiev.

NELLA GIORNATA DI OGGI, a Pavia, Andy Rocchelli sarà ricordato con numerose iniziative anche da chi, come noi, non ha avuto la fortuna di conoscerlo. «È importante che questa vicenda non venga dimenticata – dicono i genitori, Rino ed Elisa -. Il procedimento prima o poi dovrà essere riaperto, e si dovrà agire contro i comandanti dei due reparti che quel giorno erano presenti sulla collina. L’attacco contro i reporter è durato oltre mezz’ora, con la determinazione che nessuno dovesse uscirne vivo. È scandaloso che dopo dieci anni non si sia ancora fatta giustizia».
Difficile non dargli ragione.

* Fonte/autore: Andrea Sceresini, il manifesto[1]

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