by Chiara Cruciati * | 7 Maggio 2024 9:44
Intervista al medico chirurgo britannico-palestinese: ««Berlino mi ha bandito dall’Europa per un anno per impedirmi di testimoniare alla Corte penale. Per i palestinesi l’educazione è la sola cosa che nessuno può portarti via. Per questo Israele ha distrutto le università, per assicurarsi che i palestinesi non abbiano il senso del futuro»
Ghassan Abu Sitta è medico chirurgo, britannico-palestinese, e rettore dell’Università di Glasgow. Ha condotto missioni mediche in Palestina dalla Prima Intifada e operato in diversi teatri di guerra, Siria, Yemen, Iraq e Libano. Dopo mesi passati a lavorare come volontario negli ospedali di Gaza, da sabato è persona non grata in Europa: bando di un anno in tutta l’area Schengen.
Vorrei partire dalla sua storia. Lei stesso è un rifugiato, nato in diaspora. La sua famiglia fu cacciata dal suo villaggio in Palestina durante la Nakba dall’unità paramilitare Haganah e si rifugiò a Khan Younis, a Gaza. Mentre parliamo, 100mila palestinesi a Rafah hanno ricevuto un ordine di evacuazione dell’esercito. Stiamo assistendo a una nuova Nakba?
Quello a cui assistiamo è un genocidio che da sette mesi i paesi europei e gli Stati uniti proteggono perché possa proseguire. Quello a cui assistiamo è il fatto che i governi europei e la Ue hanno passato sette mesi a impedire che il genocidio venga fermato e a incrementare di dieci volte l’invio di armi a Israele così che non resti senza munizioni mentre ammazza. Rafah è un altro capitolo di questo genocidio, anche se gli stessi analisti militari israeliani dicono che non ci sarà alcun beneficio bellico se non un massacro. Quando diciamo genocidio come obiettivo di guerra, intendiamo questo: Rafah è un altro esempio del fatto che l’obiettivo militare è l’uccisione di palestinesi.
Fin dalla Prima Intifada ha portato in Palestina la sua esperienza medica. Lo ha fatto durante tutte le offensive militari degli ultimi vent’anni. Che differenza ha visto nelle pratiche militari israeliane del passato e del presente?
È la differenza che c’è tra un’alluvione e uno tsunami. L’offensiva di oggi è diversa in scala, dimensione, intensità da ogni altra guerra nella storia: la differenza sta nella distruzione sistematica del sistema sanitario come parte integrante della strategia militare. Non si era visto in nessuna guerra. Io ne ho viste molte e mai ho assistito alla distruzione della sanità come colonna portante dell’intero progetto. Perché l’obiettivo è rendere Gaza invivibile.
In cosa sono stati trasformati gli ospedali? Penso soprattutto allo Shifa, pilastro della società palestinese e archivio vivente del dramma di Gaza.
Lo abbiamo visto il 17 ottobre quando hanno colpito l’Al-Ahli. Poi hanno distrutto tutti gli altri ospedali. Hanno tramutato lo Shifa in una fossa comune, e lo stesso hanno fatto al Nasser di Khan Younis. Hanno ucciso in prigione il dottor Adnan Bursh, il capo di chirurgia ortopedica allo Shifa. La distruzione del sistema sanitario non passa solo per la distruzione degli edifici, ma anche per l’uccisione di oltre 400 medici, infermieri e paramedici e per l’incarcerazione di centinaia di loro. Passa per la loro liquidazione nelle prigioni israeliane. Lo Shifa, nello specifico, è la più grande istituzione di tutta Gaza. È la struttura più grande, il datore di lavoro più grande. Quando sei a Gaza e ti perdi, se chiedi indicazioni, ti rispondono usando lo Shifa come punto cardinale. Rappresenta il 30% dell’intero sistema sanitario. Fu costruito dai britannici durante il mandato, poi fu ampliato dagli egiziani, dall’Autorità palestinese sotto Arafat e poi da Hamas. È l’istituzione più antica. Per questo gli israeliani ne hanno fatto una fossa comune.
I fantasmi dell’ospedale degli orrori[1]
La Corte internazionale di Giustizia ha avvertito del rischio di genocidio plausibile. A monte sta la devastazione di ogni forma di sussistenza e di vita: il sistema alimentare, il settore produttivo, la sanità, le reti elettriche e idriche ma anche il sistema educativo. Lei parla spesso dell’importanza dell’educazione nella formazione delle generazioni palestinesi, che hanno tra i livelli più alti di formazione scolastica e universitaria sia in Palestina sia in diaspora. Perché è tanto importante?
Per i palestinesi, e in particolare per la generazione di mio padre, quella sopravvissuta alla Nakba, l’educazione rappresenta la sola cosa che nessuno può portarti via. Quando la generazione di mio padre perse tutto, la rete sociale, le case, lo status sociale e si ritrovò rifugiata in quella che era una vera e propria morte sociale, l’educazione è stata centrale, nessuno poteva prendersela. E per tutte le generazioni palestinesi successive l’educazione è stata la cosa su cui investire. È per questo, per assicurarsi che i palestinesi non abbiano il senso del futuro, che l’esercito israeliano ha distrutto tutte e 12 le università di Gaza e ha ucciso un centinaio tra professori e rettori.
Il mese scorso avrebbe dovuto partecipare a un’iniziativa pubblica in Germania per parlare del suo lavoro a Gaza. Ma è stato detenuto all’aeroporto e deportato. E ora su di lei pesa un divieto di un anno che le ha impedito di entrare in Francia. Cosa è accaduto?
Quando mi hanno fermato in Germania mi è stato detto, a voce, che il divieto sarebbe durato per il solo mese di aprile e solo per il territorio tedesco perché l’obiettivo era impedirmi di partecipare a quella conferenza. Così, quando sono stato invitato a parlare al Senato francese, non avrei mai pensato essere bloccato all’aeroporto Charles de Gaulle. Sono rimasto scioccato nel sentire il funzionario dell’ufficio passaporti dirmi che la Germania aveva imposto un divieto di ingresso in tutta l’area Schengen fino ad aprile 2025.
Il chirurgo palestinese Abu Sitta espulso dalla Francia[2]
In molti paesi europei il dissenso è sempre più criminalizzato, fino a giungere a pericolosi apici di repressione. Qual è il clima in Gran Bretagna e in Europa?
Se in Europa sono gli stati a portare avanti la criminalizzazione, in Gran Bretagna lo fa l’apparato della destra: i giornali di Rupert Mardoch, le organizzazioni pro-Israele e così via. Nel mio caso, ed è l’opinione dei miei legali, la ragione per cui la Germania mi ha bandito dall’intera Europa è volto a impedirmi di tornare alla Corte penale internazionale all’Aja. Il procuratore Karim Khan, la scorsa settimana, si è lamentato della pressione che i governi europei esercitano sulla Corte perché non emetta mandati d’arresto per Netanyahu, Gallant e Halevi. Credo che nel mio caso l’obiettivo sia impedirmi di raggiungere l’Olanda. Ho già testimoniato ma mi richiameranno quando il caso diverrà un processo.
In un recente articolo[3] su Progressive International Wire, lei scrive: «Gaza è il laboratorio a cui il capitale globale guarda per la gestione delle popolazioni in eccesso. (…) Le armi che Benyamin Netanyahu usa oggi sono le armi che Narendra Modi userà domani».
L’industria militare israeliana sta già pubblicizzando i prodotti usati sul campo. C’è una famigerata dichiarazione di uno degli amministratori delegati di una compagnia israeliana in cui dice di vivere a soli dieci minuti dal laboratorio. Il laboratorio è Gaza. Israele è in prima linea non solo nei robot-killer e nei software di riconoscimento facciale, ma anche nei quadricotteri. Sono i droni usati a Gaza, piccoli e con un fucile da cecchino, sono stati usati contro gli ospedali. Quando ero all’Al-Ahli, in un solo giorno abbiamo ricevuto 30 feriti da quadricotteri, giravano intorno all’ospedale e sparavano a chiunque provasse a entrare. Queste tecnologie e questa filosofia sono utilizzate contro la popolazione politicamente in eccesso, i palestinesi di Gaza ma non solo. Sono gli slum di Mumbai o quelli di Nairobi e San Paolo o i rifugiati che attraversano il Mediterraneo. O la popolazione del Kashmir dove la polizia indiana usa sempre più spesso le tecniche israeliane. C’è stato già un aumento negli ordini di armi israeliane usate in questa guerra, lo ha detto il ministero dell’economia di Israele. Nei prossimi anni vedremo quadricotteri in altri luoghi del mondo per «gestire» la popolazione in eccesso, i socialmente indesiderati.
* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto[4]
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