by Valeria Parrella * | 28 Maggio 2024 9:28
Cambiati per sempre senza sapere ancora come, senza poterci ridefinire in qualcosa. È così che riceviamo le immagini irricevibili di quei corpi che ondeggiano nel fuoco, dello sterminio compiuto dall’esercito israeliano, l’altra notte a Rafah
Fosse una questione filologica, staremmo qui a spiegare perché si può usare la parola genocidio, a spiegare che sì: si può usare questa parola, perché le parole hanno una definizione e poi vanno libere nel mondo in attesa di incarnarsi ancora e ancora, belle e brutte, nelle azioni, e quindi il fatto che sia stato usato per gli ebrei e per gli armeni purtroppo non esclude che la si possa usare ancora. Ma non è una questione filologica.
Sulle tende di Rafah bombe da 2 tonnellate. Poi il rogo: 45 uccisi[1]
È un’altra questione, e chi la sposta lì, io lo capisco: è perché è difficile mettere insieme le parole quando mancano le parole.
Le parole mancano davanti alla morte dei civili palestinesi nelle tende di Rafah perché la realtà è così oltre l’immaginazione e implica così tanti aspetti che non riesce a essere porzionata in gruppi di sillabe, quelli che vanno bidimensionali su di un foglio a comporre frasi.
Quando mancano le parole si vorrebbe essere tutti Picasso e fare Guernica, per il suo talento e per quell’arte che ha una capacità di sfondamento verso la terza dimensione, si vorrebbe essere tutti Goya. È che il significante è troppo più grande del significato, qualunque cosa io scriva non contiene quello che vedo, quello che accade.
Al salone del Libro di Torino di quest’anno l’incontro più devastante è stato un incontro di poesia. Con me e Paola Caridi c’era uno dei poeti di lingua araba più conosciuti: Najwan Darwish. È palestinese. Noi eravamo in questa sala “internazionale”, davanti a noi persone con la cuffia per la traduzione simultanea e persone che non ne avevano bisogno, ragazze, tante ragazze, velate e con i capelli sciolti, c’erano i libri, l’ufficio stampa (in Italia è pubblicato da Hopefulmonster con la traduzione di Wasim Dahmash, titola Esausti in croce), tutto quello che siamo abituati a vedere alla presentazione di un libro, ma poi c’era il corpo di questo poeta, giovane, bruno, come abitato da uno spettro.
Tenere la conversazione sulla poesia era difficilissimo: c’era questo spettro dentro di lui che ci agitava, che voleva venir fuori, e fuori dalla struttura fieristica c’erano degli studenti in pacifica protesta per il genocidio di Gaza. Ovviamente circondati dalla polizia – scelta del questore non della direzione del Salone – ma capite che nessuno è al sicuro finché davanti agli studenti c’è la polizia in tenuta antisommossa.
E poi, finalmente o purtroppo, quando una persona gli ha chiesto se la sua poesia fosse cambiata, e come, dal 7 ottobre, lo spettro è uscito, Darwish ha risposto: «Non è la mia poesia che è cambiata, io sono cambiato. E anche voi siete cambiati, magari non ve ne siete accorti».
È così – cambiati per sempre senza sapere ancora come, senza poterci ridefinire in qualcosa – che riceviamo le immagini irricevibili di quei corpi che ondeggiano nel fuoco, dello sterminio compiuto dall’esercito israeliano, l’altra notte a Rafah.
Così cambiati, senza parole. Vergogna – non basta; orrore – non dice; criminali – aiuta ma non specifica. Il poeta ci spiega ancora, in un’intervista rilasciata il 28 novembre scorso a El Pais:«Non posso proteggere con la poesia la vita di un bambino. Se fossi un politico potrei fare altro, e direttamente; se fossi un medico potrei curare i feriti. È dunque un tempo triste, per essere un poeta».
Un tempo senza parole è un tempo vuoto, nel vuoto si annidano la frustrazione, l’impotenza, la rabbia e il sentimento più inquietante: sentirsi in colpa per essere nati nella parte occidentale del mondo. Ci vorrà tanto tempo per cominciare a trovare le parole nuove, e ascolteremo dai testimoni e dai poeti come fare, impareremo dai sopravvissuti, solo da loro come metterle in fila, intanto non siamo dissimili da quei fantasmi.
* Fonte/autore: Valeria Parrella, il manifesto[2]
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