by Luca Celada * | 18 Aprile 2024 10:21
L’iniziativa di protesta in contemporanea nella Silicon Valley e a New York del movimento “NoTechForApartheid”, contro la nuova fase del progetto Nimbus, il mega Cloud per l’esercito israeliano
LOS ANGELES. La protesta è scattata agli uffici Google di Sunnyvale, nella Silicon Valley, e di Manhattan, sedi delle operazioni cloud del gigante di Mountain View: gli attivisti di NoTechForApartheid hanno occupato i locali. Contemporaneamente vi sono state manifestazioni a San Francisco e Seattle. Il gruppo ha organizzato i presidi per protestare contro la partecipazione di Google e Amazon al progetto Nimbus, un accordo di collaborazione attraverso il quale il ministero della difesa israeliano usufruisce di servizi di elaborazione di dati durante la campagna militare a Gaza.
I DETTAGLI del contratto erano stati resi noti la scorsa settimana dalla rivista Time, compreso l’accesso privilegiato alla Google Cloud che permette al ministero di elaborare dati e accedere a servizi di intelligenza artificiale. L’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale da parte dell’esercito israeliano per «acquisire bersagli» a Gaza è anch’esso venuto di recente alla luce.
La rivista palestinese-israeliana +972 ha rivelato che Israele ha usato un sistema di Ai denominato Lavender per identificare «autonomamente» decine di migliaia di potenziali vittime di bombardamenti. Nella banca dati vi sarebbero 37mila nomi identificati per possibili legami con Hamas. Fonti dell’intelligence israeliana avrebbero ammesso che il sistema comporta un margine di errore del 10%. Per ogni bersaglio da eliminare sarebbero inoltre considerate accettabili 15-20 morti «collaterali», fino a 100 nel caso di target di comando. Secondo una fonte di intelligence citata dal Guardian, il sistema è in grado di acquisire bersagli in modo più accurato e «spassionato» di operatori umani.
20 secondi per uccidere: lo decide la macchina[1]
Il coinvolgimento di Google e di Amazon nell’automazione dello sterminio ha suscitato una crescente opposizione da parte dei programmatori di Silicon Valley. Il mese scorso a New York impiegati di Google avevano ripetutamente interrotto un seminario tenuto da Barak Regev, responsabile per le operazioni israeliane dell’azienda.
Non è la prima volta che i lavoratori di Google contestano le scelte della direzione. Nel 2018 migliaia di programmatori avevano protestato il progetto Maven, che prevedeva la fornitura di programmi Ai per il programma di droni autonomi del Pentagono. In seguito alle proteste, quell’iniziativa venne abbandonata.
SUCCESSIVAMENTE, però, carburate dalla corsa «strategica» agli armamenti Ia, le collaborazioni militari delle aziende di Silicon Valley sono aumentate esponenzialmente. Le clausole del contratto israeliano, la cui «fase 2» è partita il 14 aprile, prevedono la fornitura da parte di Google di «assistenza per la progettazione, architettura, consulenza implementazione e automazione» dei sistemi.
I sit-in di ieri sono stati il culmine di una mobilitazione interna a cui hanno concorso MPower Change e Jewish Voice for Peace, formazioni pacifiste di indirizzo rispettivamente islamico ed ebraico. La mobilitazione è stata contrastata dall’azienda che aveva, ad esempio, vietato la discussione sul progetto Nimbus sui canali di messaggistica aziendale. Una prima manifestazione era stata organizzata a San Francisco a dicembre. Quelle di ieri sono avvenute all’indomani di una giornata di lotta per la Palestina nel corso della quale manifestanti avevano occupato il Golden Gate Bridge, bloccando il traffico sul ponte.
«Gaza è un laboratorio per distruzioni di massa»[2]
Al Washington Post una delle attiviste, Zelda Montes, ha definito «deplorevole che Google venda la propria tecnologia al governo e all’esercito di Israele. Speriamo che questa azione possa spingere i nostri colleghi a esigere che il loro lavoro non venga messo al servizio del contesto in cui si sta portando a temine un genocidio».
LA PROTESTA si inserisce nel quadro di una crescente opposizione alla guerra israeliana nelle università, ai margini della campagna elettorale americana e sempre più nel mondo tech. Sul sito di NoTechForApartheid si legge tra l’altro: «La collaborazione di Amazon e Google con l’apartheid israeliana fa parte di un modello più ampio di Big Tech che alimenta la violenza di stato in tutto il mondo. Aziende tecnologiche come Amazon e Google sono i nuovi profittatori di guerra e hanno un triste record in materia di diritti umani. Amazon contribuisce ad alimentare la macchina di deportazione-detenzione di immigrati (…). Google e Amazon stanno anteponendo il profitto alle persone alimentando la violenza del governo israeliano contro i palestinesi. La tecnologia può unire le persone, ma quando questi strumenti vengono utilizzati per danneggiare le comunità, rendono il mondo meno sicuro per tutti noi».
Dopo dieci ore circa di occupazione, Google ha fatto intervenire la polizia che ha arrestato i manifestanti all’interno dei locali aziendali.
* Fonte/autore: Luca Celada, il manifesto[3]
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