Fonti fossili. Sussidi per 2 miliardi dall’Italia, quinta del G20

Fonti fossili. Sussidi per 2 miliardi dall’Italia, quinta del G20

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In base al rapporto «Nemici pubblici» ci superano solo Cina, Giappone, Corea del Sud e Canada. L’Ue, ormai alla vigilia delle elezioni europee, sta preparando una comunicazione ai governi: basta con le sovvenzioni

 

Con le europee sempre più vicine, si torna a ragionare sulla fine dei sussidi pubblici al fossile: «In linea con le recenti conclusioni della Cop e con la proposta della Commissione di revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia, gli Stati membri devono adottare misure che eliminino le sovvenzioni per l’utilizzo di combustibili fossili, anche sotto forma di esenzioni fiscali o aliquote ridotte» così si legge nella bozza di comunicazione che fa il punto sui dialoghi relativi al Green Deal, ieri sul tavolo del Collegio dei commissari.

Sussidi miliardari, come confermato dal recente rapporto «Nemici pubblici» di Oil Change International, Friends of the Earth Stati Uniti e ReCommon, che fa luce proprio sul diluvio di denaro pubblico, elargito tra il 2020 e il 2022, dai paesi più ricchi del mondo (G20) al comparto fossile: complessivamente 846 miliardi di dollari all’anno attraverso finanziamenti internazionali, sussidi diretti e indiretti, investimenti delle imprese pubbliche. Solo prendendo in considerazione i finanziamenti dati dalle istituzioni finanziarie pubbliche e dalle banche multilaterali di sviluppo, si parla di 142 miliardi di dollari, un dato peraltro sottostimato. L’Italia, per quanto riguarda finanziamenti e garanzie pubbliche ai comparti del gas, occupa il quinto posto in classifica con 2 miliardi e 569 milioni di dollari all’anno (tramite Sace e Cassa depositi e prestiti) addirittura più degli Stati Uniti (che finanzia il fossile con 2 miliardi e 253 milioni di dollari all’anno). Ci superano solo Cina, Giappone, Corea del Sud e, prima in classifica, Canada (con oltre 10 miliardi di dollari annui).

Secondo la Commissione Ue, in Italia i sussidi totali ai combustibili fossili ammontano a quasi 1,4% del Pil, poco meno della metà di questi sussidi ha una data di fine dopo il 2030 o non ha una data di fine, mentre i rimanenti dovrebbero finire prima del 2025. Nei nostri territori stanno procedendo costosissimi e impattanti cantieri, finanziati da fondi pubblici, tra rigassificatori e metanodotti. A Ravenna la diga frangiflutti, necessaria al rigassificatore, costerà all’Autorità portuale 270 milioni di euro garantiti da Cdp. «Con il calo costante della domanda di gas in Italia, è ora che il governo smetta di utilizzare la scusa della sicurezza energetica e implementi seriamente la Dichiarazione di Glasgow con una politica adeguata, altrimenti è chiaro che ci troviamo dinanzi all’ennesimo regalo alle multinazionali energetiche», conclude il campaigner Simone Vengo di ReCommon.

Le contraddizioni sono anche europee: nonostante la promessa pre-elettorale di eliminare i sussidi al fossile, la Commissione Ue (a novembre 2023) e il Parlamento europeo (a marzo 2024) avevano approvato la sesta Pci list, un elenco di progetti prioritari che comprendeva anche due contestati gasdotti, il Melita tra Malta e la Sicilia, ed Eastmed, per portare il gas dai giacimenti di Israele e Cipro fino alla Grecia. Progetti dannosi per l’ambiente e per la pace, in luoghi di conflitto, che però godranno di una valutazione di impatto ambientale semplificata, autorizzazioni accelerate e accesso ai sussidi da parte della Banca europea degli investimenti (Bei) e della Banca europea ricerca e sviluppo (Bers). Nella sesta Pci list ci sono anche numerosi progetti di idrogenodotti (per idrogeno di origine fossile) e di Ccs (stoccaggio e cattura del carbonio) molto contestati dalle associazioni ambientaliste per la loro pericolosità e perché così facendo si prolunga la dipendenza dai fossili.

* Fonte/autore: Linda Maggiori, il manifesto



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