by Michele Giorgio * | 15 Marzo 2024 9:51
Esce (per poco) dal carcere Sofia Orr, la seconda renitente alle leva per motivi politici dal 7 ottobre: «Arruolandomi avrei preso parte a un ciclo di violenza decennale. Lo faccio per tutti gli israeliani, anche se solo una esigua minoranza lo capisce, e per i palestinesi»
KFAR YONA. C’erano i genitori e la sorella mercoledì alle 8 ad aspettare Sofia Orr fuori dalla prigione Neve Tzedek, nella base militare di Kfar Yona, dove è stata detenuta dal 25 febbraio. Quel giorno la 18enne israeliana, presentandosi al centro di reclutamento, aveva dichiarato il suo rifiuto del servizio di leva perché «non vuol far parte di un esercito di occupazione del popolo palestinese» nonché responsabile dell’offensiva che sta devastando Gaza.
SORRISI, abbracci e qualche lacrima al suo arrivo, sotto lo sguardo severo dei militari di guardia e di tre agenti della sicurezza che hanno controllato i documenti di tutti i presenti, anche dei giornalisti stranieri. Grande la gioia dei genitori, sostenitori dichiarati «sino in fondo» delle ragioni della figlia.
«Non è facile, specialmente in questo momento, proclamarsi contro la guerra. Tra i nostri vicini alcuni rispettano la scelta di Sofia, tanti altri no, la condannano e non mancano di farci sapere la loro opinione», ci ha detto Hulu Orr, il padre di Sofia. Dalla parte dei refusenik c’è l’organizzazione Mesarvot, che tutela, o almeno prova a farlo, gli obiettori di coscienza e diffonde le loro motivazioni.
Sofia Orr mercoledì ha solo ottenuto un permesso, domenica tornerà a Kfar Yona e, con ogni probabilità, la detenzione sentenziata a febbraio dal giudice militare sarà estesa. La ragazza si è aggiunta a Tal Mitnik, suo coetaneo, incarcerato per gli stessi motivi alla fine del 2023.
L’obiezione di Mitnick: «Rifiuto l’uniforme israeliana»[1]
«Ho deciso di rifiutare – ci ha detto Sofia – molto prima dell’inizio della guerra contro Gaza, ho fatto questa scelta quando avevo 15 anni, perché non voglio partecipare all’occupazione dei palestinesi. Se mi fossi arruolata avrei preso parte a un ciclo di violenza decennale. Non potevo farlo e inoltre devo contribuire a mettere fine all’oppressione. Lo faccio per tutti gli israeliani, anche se solo una esigua minoranza lo comprende, e i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, perché ogni essere umano merita di vivere in dignità e sicurezza».
Più numerosi in passato, da quando la politica e la società in Israele hanno virato con decisione verso destra i refusenik si sono fatti più rari. A maggior ragione oggi che Israele si considera in guerra con Hamas, di fatto con tutti i palestinesi, dopo l’attacco lanciato dal movimento islamico il 7 ottobre che ha fatto circa 1.200 morti. Con il militarismo ancora più accentuato, in una società che venera i suoi soldati e il servizio di leva, dichiararsi obiettore è considerato un «tradimento».
RIFIUTARSI di entrare nelle forze armate per principi politici non è ritenuta una motivazione valida per quasi tutti gli israeliani ebrei (i cittadini arabi, ossia i palestinesi con cittadinanza israeliana non fanno il militare). L’esercito israeliano dispone di un comitato per gli obiettori di coscienza, ma le esenzioni vengono solitamente concesse per motivi religiosi, come avviene per gli ebrei haredi ultraortodossi (la legge potrebbe cambiare).
Perciò, i refusenik finiscono per scontare detenzioni che durano settimane o mesi prima di essere congedati, di fatto espulsi dell’esercito. Chi non fa il militare inoltre non avrà accesso a una serie di privilegi previsti, in particolare per i soldati delle unità di combattimento, e porterà per sempre questa «macchia» nel suo curriculum.
«La società israeliana – ha concluso Sofia – fa di tutto per ignorare l’occupazione e i palestinesi, vive come se non esistessero. Ma l’occupazione non scompare. Resta e continua ad aggravarsi e prima o poi esplode».
* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto[2]
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