by Marco Bascetta * | 23 Marzo 2024 19:08
Prima o poi l’economia di guerra necessita di un vero scontro armato per essere creduta e subita. E il passo sarà a quel punto inevitabile
Un’economia di guerra, sia pure di natura parziale, non può giustificarsi a lungo senza il coinvolgimento diretto in un conflitto, senza una qualche forma concreta di discesa in campo. Non basta finanziare generosamente una guerra, sebbene vicina ma condotta da altri. Per garantirsi l’appoggio di una popolazione che soffrirà il travaso di risorse dal welfare al settore militare.
Fino a un certo punto questo coinvolgimento può essere anticipato nella retorica e nella rappresentazione, ma prima o poi l’economia di guerra necessita di un vero scontro armato per essere creduta e subita. E il passo sarà a quel punto inevitabile. Evocarne i vantaggi in termini di occupazione e sviluppo industriale è malafede o segno di una mentalità rimasta indietro di un secolo quando tra riarmo e crescita economica si poteva ancora stabilire una certa perversa relazione. Oggi, eccetto l’industria bellica e chi specula, soprattutto sull’energia, nessuno ne ottiene beneficio.
In questo groviglio di incertezze e azzardi si dibatte l’Ue senza aver superato una sola delle storiche divisioni che la attraversano. Il sostegno incondizionato (a parole) all’Ucraina e la veemente condanna dell’aggressione russa fungono da simulacro di un’inesistente unità di intenti. Tutti tirano la coperta dalla propria parte e cercano di far quadrare i conti delle proprie questioni interne e dei propri narcisismi politici. Non è facile stabilire quanto stupidità, arroganza e meschini interessi particolari influiscano sul corso dei grandi eventi storici, ma apparentemente non poco.
L’Europa boccia il Cern della salute[1]
Se davvero l’Europa si trovasse a dover fronteggiare un’imminente aggressione russa su vasta scala, che senso avrebbe la diatriba sugli eurobond, quel debito comune da sempre avversato dal fronte dei tirchi (Austria, Svezia, Danimarca, Repubblica Ceca, Olanda e Germania) e sostenuto invece dagli indebitati paesi mediterranei (Francia, Spagna, Italia) per finanziare l’emergenza bellica?
Qualcuno crede a una svolta isolazionista tanto profonda da indurre gli Usa a disertare la propria posizione, sia pure sempre più problematica, di primo attore negli equilibri globali arretrando sul decisivo scacchiere europeo? Lo spauracchio ha il più modesto obiettivo di addebitare agli alleati una parte maggiore dei costi militari della geopolitica occidentale. Così come gli europei si accapigliano tra loro sulla distribuzione della spesa militare, come su ogni altro problema di distribuzione, a partire dai migranti.
Ma l’«economia di guerra» ha un altro scopo alquanto pratico e grandemente apprezzato dagli ultraliberisti, come il ministro delle finanze tedesco Lindner: quello di mettere in questione l’intangibilità del welfare che le circostanze, non necessariamente belliche, possono sospingere indietro nell’ordine delle priorità, salva restando la crescita dei profitti. Richiesto è comunque un alto tasso di drammatizzazione che i governi europei e i media si occupano con grande zelo di diffondere per prevenire reazioni avverse dell’opinione pubblica.
La vecchia ricetta: armiamoci e arricchiamoli[2]
Non è un caso che nella Bundesrepublik circoli allarme sul futuro del debito pubblico e che il reddito di cittadinanza si trovi di nuovo pesantemente sotto attacco. In questo quadro ogni lotta in difesa della spesa sociale e contro l’austerità di stampo più o meno patriottico assumerebbe, più del discorso genericamente pacifista, un’importante e concreta funzione di contrasto alla deriva militarista. E metterebbe in difficoltà le destre che si sforzano di conciliare populismo sociale e dottrina dello stato forte.
L’espressione peggiore dell’Ue è oggi il ripugnante opportunismo di Ursula von der Leyen. Alla presidente della Commissione in cerca di conferma possiamo imputare la demolizione di fatto del diritto di asilo in combutta con le peggiori dittature mediterranee, l’affossamento della già prudente riconversione ecologica, lo sdoganamento (con sblocco dei fondi), già stigmatizzato dal parlamento europeo, di Victor Orbán e della sua estraneità allo stato di diritto e, infine, la politica di riarmo ormai ribattezzata «preparazione alla guerra».
Perfino nel Partito popolare europeo a cui appartiene, le giravolte di von der Leyen suscitano malumori e disappunto. Dismesso l’europeismo liberale che teneva insieme la sua maggioranza, von der Leyen non può che essere la candidata di uno schieramento fortemente orientato a destra, che non nasconde l’intento di subordinare la politica dell’Unione agli interessi delle sovranità nazionali.
* Fonte/autore: Marco Bascetta, il manifesto[3]
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