L’attacco a Mosca. Come spiegare l’Isis al Cremlino (e a noi)

L’attacco a Mosca. Come spiegare l’Isis al Cremlino (e a noi)

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Con il conflitto ucraino, al quale si è aggiunto quello di Gaza – nel cuore di quel Medio Oriente dove l’Isis è nato – le organizzazioni jihadiste hanno profittato della situazione per tessere le loro trame dal Sahel all’Afghanistan fino all’Asia

 

Il terrorismo fabbrica attentati ed eventi che si muovono al confine tra la realtà più sanguinosa e la manipolazione più destabilizzante. Per questo non è decifrabile come un conflitto aperto: il messaggio può apparire chiaro, gli autori noti, le motivazioni apparenti pure, ma le conseguenze e le vere ragioni si valutano con il tempo.

Chi poteva immaginare che dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 gli Stati uniti e i loro alleati avrebbero utilizzato i jihadisti contro Mosca? Questi erano degli islamisti radicali, nemici della cultura occidentale. Eppure Osama bin Laden con Al Qaeda per anni è stato un alleato degli Usa, del Pakistan e dell’Arabia saudita prima diventare l’ispiratore dell’11 settembre, epoca in cui – con una giravolta della storia – gli interessi americani e quelli russi si erano saldati di fronte al comune nemico rappresentato dai jihadisti.

Le ambiguità nelle vicende terroristiche sono molteplici. Il fondatore dell’Isis Al Baghdadi è stato nelle carceri americane in Iraq da dove venne liberato dalle stesse autorità Usa passando dalla porta principale. Lo stesso Califfato, che poi colpì anche in Turchia, è stato un interlocutore dei servizi segreti di Ankara per contrastare i curdi siriani – nostri alleati contro il Califfato – ed Erdogan l’unico leader della Nato a trattare direttamente con i jihadisti. Forse ce lo siamo dimenticati.

Il terrorismo deve sorprendere, anche quando lascia spazio agli apprendisti stregoni che pensano di usarlo. L’allora generale Lloyd Austin, oggi capo del Pentagono, nel settembre 2015 ci informò del fallimento Usa nel reclutare in Siria e Giordania con 500 milioni di dollari dei «combattenti» arabi e di altre nazionalità da usare contro l’Isis anche contro l’autocrate Assad: di 5mila ne rimasero soltanto 5, gli altri erano scappati vendendo le armi a chissà chi. Di queste contraddizioni la guerra in Ucraina ne è già stata un esempio con l’attentato al ponte di Kersch e ancora di più con quello al gasdotto offshore North Stream: prima che le inchieste giornalistiche americane ci rivelassero come probabile autori del gesto la pista ucraina e occidentale, si sosteneva che a farlo erano stati i russi stessi.

Oggi la scena internazionale è ancora più complicata di prima perché il terrorismo – se questo è uno dei suoi obiettivi – si vuole inserire come un attore tra i conflitti locali e il più ampio e pericoloso scontro di potenze scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina. Come ha dimostrato l’invasione sovietica dell’Afghanistan del ’79 si aprono nuovi e imprevedibili scenari.

Anzi con il conflitto ucraino, al quale si è aggiunto quello di Gaza – nel cuore di quel Medio Oriente dove l’Isis è nato – le organizzazioni jihadiste hanno largamente approfittato della situazione per tessere le loro trame dal Sahel all’Afghanistan fino all’Asia, come scriveva l’ultimo numero di Le Monde Diplomatique. Ci possiamo chiedere, soprattutto, quando i jihadisti interverranno in questa guerra di Gaza dove sono già stati uccisi 1200 israeliani e 32mila palestinesi. Quasi ci stupisce che dopo sei mesi non l’abbiano già fatto visto che gli spetterebbe «per competenza».

Eppure anche qui ci hanno in parte sorpresi. Quando si sono fatti vivi in Medio Oriente i terroristi dell’Isis Korassan (Isis-k) hanno colpito in Iran, ovvero uno dei maggiori sponsor proprio di Hamas e dei palestinesi della Striscia. L’Iran tra l’altro è uno dei più importanti alleati anche militari della Russia, oltre che il nemico più temuto da Israele. Il 3 gennaio scorso i terroristi dell’Isis-K hanno rivendicato un attentato con oltre 100 morti a Kerman nel sud-est dell’Iran durante un cerimonia in omaggio del generale Qassem Soleimani, ucciso a Baghdad nel 2020 da un drone americano. Soleimani aveva combattuto a fianco di Assad e delle milizie sciite per fermare l’avanzata dell’Isis in Iraq.

Sui canali Telegram, l’Isis-K aveva specificato che questa azione – la quarta in Iran dal 2017 – era stata portata termine in occasione «di un grande raduno di apostati – gli sciiti – a sostegno dei musulmani, in particolare in Palestina». L’Isis come Al Qaeda ha fatto sempre più vittime tra i musulmani, nel caso gli sciiti, che tra gli occidentali. Che l’Isis-K faccia fuori i seguaci del loro nemico Soleimani è logico, un po’ meno che colpisca l’Iran uno dei maggiori finanziatori di Hamas che loro vorrebbero vendicare dalla furia israeliana. Seguire le logiche del terrorismo come si vede non sempre porta a spiegazioni razionali, se non quella che all’Isis interessa di più colpire i suoi nemici «storici» come l’Iran e la Russia che fare un gesto clamoroso filo-palestinese che forse (speriamo di no) riserveranno all’ Europa o da qualche altra parte.

Ma la memoria è corta e le spiegazioni non sempre convincenti. Può sembrare infatti poco credibile che Putin accusi l’Ucraina per l’attentato al teatro di Mosca. In realtà il Cremlino non ha nessuna intenzione di acuire le tensioni con le popolazioni musulmane della Federazione dopo gli anni della guerra in Cecenia, delle stragi in Tagiskistan e della guerra in Siria. Ha bisogno di reclutare soldati e di un fronte interno compatto mentre l’azione dell’Isis mette fortemente in dubbio che abbia vinto la guerra contro gli islamisti radicali dell’Asia centrale del Caucaso mentre i suoi servizi di intelligence hanno mostrato un crepa clamorosa.

Il terrorismo non contempla, per lungo tempo, sentenze definitive e oggi quella bandiera nera dell’Isis, che ho visto sventolare tante volte tra Siria e Iraq, appare ancora più di prima come un oscuro e tenebroso sipario sul destino dei popoli e delle nazioni.

* Fonte/autore: Alberto Negri, il manifesto



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