by Vincenzo Scalia * | 27 Marzo 2024 9:30
A partire dagli anni ottanta, in seguito all’incalzare del neo-liberismo, si è andata diffondendo una lettura dei diritti umani in chiave individuale. In particolare, prendendo come sfondo i regimi socialisti dell’Est, si è cominciato a porre l’accento sui diritti civili e politici, centrati prevalentemente sull’individuo, inteso come soggetto astorico e isolato dalla società. Dopo il 1989, questa lettura liberale dei diritti umani, ha fatto riferimento, in maniera spesso approssimata e non sufficientemente efficace, all’homo oeconomicus a cui si riferivano Von Hayek, Von Mises, Milton Friedman, Glucksmann, Henry-Levy e tutti gli aedi del pensiero neo-liberale/liberista.
La declinazione neo-liberista dei diritti umani tralascia il fatto che la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Onu il 10 dicembre del 1948, dedica una parte cospicua ai diritti sociali, ovvero il lavoro, l’alloggio, la sanità, l’istruzione. Non casualmente, Giorgio Agamben, focalizza parte del suo pensiero sulla differenza tra diritti umani e diritti dell’umanità. I primi rientrano nel novero dell’individualità e dell’individualismo, e vengono accuratamente filtrati e segmentati dal potere in funzione di una loro addomesticazione. Separare le sfere dei diritti, spezzettarne la fruizione, li rende governabili e plasmabili da parte del potere. Al contrario, leggere i diritti umani come diritti dell’umanità, declinandoli in modo collettivo, permette di coglierne la potenza trasformatrice e le potenzialità emancipatorie, nella prospettiva di un miglioramento delle condizioni di tutto il genere umano.
Da venti anni, il Rapporto sui diritti globali, curato da Sergio Segio per conto dell’Associazione società in formazione (Edizioni Milieu), si muove nel solco agambeniano, arrivando anche a proporre due ulteriori articolazioni. La prima riguarda per l’appunto la dimensione globale dei diritti, in relazione ai processi di globalizzazione prodottisi nell’ultimo trentennio. In secondo luogo, in un’epoca caratterizzata sempre più frequentemente dai disastri ambientali e dai cambiamenti climatici, parlare di diritti equivale a discutere delle condizioni del pianeta.
Per esempio, se una massa sempre più consistente di persone cerca di fruire dei propri diritti lontano dai luoghi di nascita, si tratta di un processo che ha senza dubbio a che fare con le dinamiche del capitalismo estrattivo, che, saccheggiando le risorse, oltre a impoverire le economie locali e a distruggere l’ecosistema, finisce per causare conflitti attorno alle risorse a disposizione. Fame, guerra, povertà, disastri ambientali, non possono che causare esodi in massa. Una massa che mette in crisi gli equilibri neoliberali dei paesi affluenti, basati sulla competizione e sul cosiddetto governo delle eccedenze, che si concreta nell’abuso delle strutture detentive e della risorsa penale, a giustificare un’emergenza permanente, attraverso la quale si mettono in atto l’esclusione e la marginalizzazione di larghi strati della popolazione.
Un’umanità segmentata, catalogata, reclusa, obbligata a comportarsi in modo uniforme, diffidata dall’esprimere una soggettività. È in questo solco che si innestano le politiche proibizioniste sugli stupefacenti, le quali, oltre ad alimentare ulteriormente la macchina della repressione, rafforzano strutture di potere parallele, come le organizzazioni criminali. Processi globali, che richiedono, in termini di diritti, risposte globali. Il rapporto, da vent’anni, ce lo spiega. Sia analizzando pezzo per pezzo i vari aspetti dei diritti, per poi comporli in un quadro unitario, sia producendo numeri speciali, che ospitano (come quest’anno) riflessioni di esperti. La cronaca si abbina alla riflessione. Un doppio binario necessario per chi vuole parlare di diritti al giorno d’oggi.
* Fonte/autore: Vincenzo Scalia, il manifesto[1]
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