Gaza. Pasqua con la guerra, anche i cristiani rischiano l’esodo forzato
Come tutti gli altri palestinesi, ortodossi e cattolici nella Striscia vivono da sfollati in condizioni spaventose. Chi può cerca di lasciare Gaza e spesso si dirige in Australia
GERUSALEMME. «Per la nostra comunità è una Pasqua amara, molto amara. I cristiani di Gaza, come tutti gli altri palestinesi, sono sfollati e sotto le bombe. Quelli della Cisgiordania non possono entrare a Gerusalemme perché Israele nega loro i permessi. L’assenza del turismo a Gerusalemme e in Cisgiordania sta affondando gli hotel, le strutture private e quelle legate alle Chiese che vivono di pellegrinaggi. E nessuno sa quando finiranno l’offensiva militare israeliana e le stragi a Gaza». Fadi, nome di fantasia per ragioni di sicurezza, è un giovane teologo di Gaza, giunto qualche settimana fa in Cisgiordania. Con poche frasi descrive un altro capitolo, poco conosciuto, di una guerra che tra le sue conseguenze potrebbe portare alla scomparsa della minuscola comunità cristiana di Gaza, circa un migliaio di persone, in maggioranza ortodossi.
«I palestinesi cristiani a Gaza sono a rischio come tutti gli altri e hanno pagato con la vita di almeno 21 persone i bombardamenti aerei israeliani, morti ai quali vanno aggiunti quelli colpiti da spari e coloro che sono deceduti per mancanza di cure, il sistema sanitario è distrutto», dice Fadi ricordando il massacro, la sera del 19 ottobre dello scorso anno, di 18 cristiani causato da una bomba caduta su una struttura della Chiesa ortodossa di San Porfirio in cui si trovavano oltre 100 sfollati sugli oltre 400 ospitati nel complesso religioso. Tra gli uccisi anche Marwan Tarazi, custode dell’archivio dello storico studio fotografico di Kegham Djeghalian. Israele sostenne di aver preso di mira un «centro operativo di Hamas». Fadi ricorda che la chiesa di San Porfirio, tra le più antiche in Medio oriente, e quella latina (cattolica) della Sacra Famiglia, ospitano decine di famiglie cristiane e musulmane. «Sono uomini, donne e bambini che vivono in condizioni molto difficili da quasi sei mesi. È una vita non più sopportabile e il mondo non fa nulla di concreto per fermare l’offensiva israeliana contro Gaza».
Chi può, quindi anche i cristiani, cerca di lasciare Gaza, almeno fino a quando non finirà l’attacco israeliano e sarà avviata la ricostruzione. Secondo Xavier Abu Eid, un portavoce della comunità palestinese cristiana, «secondo calcoli ufficiosi, il 4% dei cristiani ha lasciato Gaza (attraverso il valico di Rafah con l’Egitto, ndr), una percentuale che a prima vista potrebbe apparire bassa e che invece è molto significativa se teniamo conto delle dimensioni ridotte della comunità». Famiglie intere che hanno pagato le «tasse» egiziane (una vera e propria estorsione da almeno 5mila dollari a persona) per raggiungere il Cairo e che poi sono partite in maggioranza per l’Australia, paese che ospita una nutrita comunità palestinese. «Alcuni forse avrebbero preferito andare dai parenti in Cisgiordania ma Israele non permette ai palestinesi di Gaza di trasferirsi lì», prosegue Abu Eid.
Quello dei permessi negati è una tema generale che riguarda tutti i palestinesi, ma è tornato di stretta attualità per i cristiani proprio in questi giorni. Le autorità israeliane non hanno ammorbidito la linea inflessibile verso i tre milioni e mezzo di palestinesi della Cisgiordania, neanche in occasione della Pasqua. Quindi non consentono ai cristiani di raggiungere Gerusalemme. I musulmani possono entrare sono il venerdì di Ramadan se hanno più di 60 anni gli uomini e 50 le donne. «In Cisgiordania – ci dice il pastore luterano Mitri Raheb, studioso e fondatore dell’università Dar Al Kalima – con le strade principali sigillate dall’occupazione militare, siamo rinchiusi dietro muri di cemento che hanno trasformato le nostre città in Bantustan. Continuiamo a chiederci quando otterremo la libertà di vivere con dignità». Raheb avverte che le restrizioni israeliane e le violenze dell’occupazione minacciano direttamente la minoranza cristiana. «Questa Pasqua – dice – siamo testimoni di orrori mai immaginati. La Chiesa in Terra Santa, insieme a migliaia di anni di cultura e patrimonio palestinese si sta disintegrando davanti ai nostri occhi. A Gerusalemme a Betlemme, Nazareth e Nablus, assistiamo ai crescenti attacchi contro la nostra comunità da parte di coloni ed estremisti israeliani».
Il 26 marzo più di 140 leader cristiani di tutto il mondo hanno chiesto un cessate il fuoco permanente a Gaza e la fine del sostegno militare a Israele in una lettera diretta al presidente degli Stati uniti Joe Biden e ad altri leader politici. «Noi, come leader cristiani globali, siamo al fianco dei nostri fratelli e sorelle in Palestina e nel mondo e diciamo che gli omicidi devono finire e che la violenza deve finire», hanno scritto.
La Settimana Santa è un periodo in cui fedeli locali e pellegrini stranieri si riversano a Gerusalemme per camminare sulla via che, secondo la tradizione, avrebbe percorso Gesù prima della sua crocifissione. Quest’anno poche centinaia di persone hanno preso parte ai riti della Via Crucis nella Città Vecchia e non se ne prevedono tanti di più per la Pasqua ortodossa il 5 maggio. La crisi del turismo religioso dopo sei mesi di guerra – solo ora si registrano timidi segnali di ripresa – sta avendo ricadute importanti sulla linfa che nutre gran parte della comunità cristiana a Gerusalemme e Betlemme e migliaia di lavoratori palestinesi, anche musulmani. Il turismo cristiano è il terzo più grande datore di lavoro privato nei Territori occupati. Per Fadi la crisi economica c’è per tutti e ora conta solo in parte. La priorità, conclude, «è fermare subito l’offensiva israeliana contro Gaza e mettere fine alla strage di tanti palestinesi innocenti».
* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto
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