Gaza. L’Unrwa contro-accusa Israele: «Torture sul nostro staff»

Gaza. L’Unrwa contro-accusa Israele: «Torture sul nostro staff»

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Il rapporto dell’agenzia delle Nazioni unite, sotto attacco: pestaggi, waterboarding, aggressioni con i cani, violenze sessuali, i metodi usati negli interrogatori. Israele: 450 impiegati sono miliziani. Ma non dà prove. Canada e Svezia riprendono i finanziamenti

 

Il sistema di ingresso e distribuzione degli aiuti a Gaza, ideato da Israele, è pensato per non funzionare: ritardi, blocchi improvvisi, liste fantasma di prodotti off limits, dai sacchi a pelo alle merendine al cioccolato «perché non sono beni essenziali». Se l’unica reale soluzione alla catastrofe umanitaria resta il cessate il fuoco, in assenza di tregua il modo migliore per attenuarla è aprire i valichi terrestri. Non avviene nemmeno questo e gli alleati occidentali di Israele si inventano di tutto, dai paracaduti ai porti galleggianti.

C’È POI UN ALTRO strumento, più sottile, per far inceppare il meccanismo: legare le mani all’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, l’unica in grado di gestire il flusso (scarso) di aiuti e di coordinare il lavoro delle altre agenzie. Per un motivo semplice: lo fa da sette decenni.

«Per chiunque sarebbe difficile operare a Gaza, ma l’Unrwa è pioniera – ci spiega Adnan Abu Hasna, portavoce nella Striscia – Ha la capacità, l’esperienza e lo staff adatto. Stiamo già parzialmente lavorando alla mappatura dei danni in vista di una ricostruzione».

Nei giorni scorsi Abu Hasna era in Egitto per incontrare la delegazione italiana organizzata da Aoi. È nato a Rafah, ma da anni vive a Gaza City. A Rafah ci è tornato da sfollato. Pochi giorni fa un vicino gli ha inviato la foto della sua casa: «È parzialmente distrutta. Ma quella fotografia mi ha regalato un po’ di gioia: ho visto i miei due cani, sono ancora vivi».

«Da anni avvertiamo i vertici politici israeliani che dicono di voler chiudere l’Unrwa: al suo posto emergerebbero gruppi di potere radicali», dice. Eppure il lavoro di delegittimazione, in corso da anni per motivi politici (farla chiudere significherebbe cancellare lo status di profugo palestinese e di conseguenza il diritto al ritorno), ha trovato nuova linfa nelle accuse mosse dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre che ha ucciso oltre 1.100 israeliani e ne ha rapiti 253.

Lo scorso lunedì il raggio dell’addebito si è ampliato: ai 12 impiegati palestinesi accusati di aver preso parte all’attacco e per cui Tel Aviv non ha ancora fornito prove, se ne aggiungerebbero altre centinaia. 450 per l’esattezza, ha detto il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari, sono membri di organizzazioni armate. Anche qui, nessuna prova né nomi, sebbene più volte la stessa agenzia abbia chiesto a Tel Aviv di rendere disponibile ogni informazione possibile.

SEDICI PAESI occidentali hanno sospeso i finanziamenti (un totale di 450 milioni di dollari, metà del budget annuale) sulla base delle accuse verbali israeliane. Qualcosa è cambiato nelle ultime ore: dopo l’Unione europea che ha annunciato la scorsa settimana l’invio di 50 milioni di euro, Canada e Svezia ieri hanno deciso di riprendere i pagamenti.

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Stoccolma invierà 19 milioni di dollari, mentre Ottawa spiega la decisione con «i bisogni urgenti dei civili palestinesi» e il riconoscimento che «un robusto processo investigativo è in corso». Forse, a sbloccare la situazione, è stato anche il rapporto interno compilato da Unrwa a febbraio e che, fa sapere la portavoce Juliette Toma, sarà girato alle Nazioni unite.

Si parla di ricorso sistematico alla tortura da parte delle autorità israeliane su impiegati dell’Unrwa arrestati a Gaza. Trattamenti simili a quelli raccontati da altri ex prigionieri (1.002 i rilasciati a valico di Kerem Shalom fino al 19 febbraio, palestinesi tra i sei e gli 82 anni) e da testate israeliane e internazionali.

«I membri dell’agenzia sono stati sottoposti a minacce e coercizione in custodia e costretti a rilasciare false dichiarazioni contro l’agenzia, compresa l’affiliazione ad Hamas e la partecipazione all’attacco del 7 ottobre». Pestaggi, waterboarding, minacce ai familiari, aggressioni con i cani, violenze sessuali, alcuni dei metodi usati negli interrogatori.

Sentito in merito, l’esercito non ha risposto limitandosi a dire che i singoli casi saranno oggetto di inchieste interne. «Il rapporto si fonda su testimonianze dirette delle persone – ha aggiunto Touma – In molti casi era chiaro l’impatto fisico sui loro corpi. E anche quello psicologico».

«DOPO LA RIPRESA di alcuni finanziamenti siamo in grado di fornire cibo fino a fine luglio – ci diceva Scott Anderson, capo dell’Unrwa a Gaza, al valico di Rafah pochi giorni fa – Ma il problema resta la distribuzione. A Rafah la popolazione soffre già la fame, ma a nord di Wadi Gaza parliamo di carestia (25 i morti per fame, ndr). Serve tutto, cibo, acqua, rifugi. Ma soprattutto speranza, tanto più con l’inizio del Ramadan, che qui ha un significato simbolico importante».

Con alle spalle il valico, prima di rientrare a Gaza, Anderson insiste sulla magnitudo dell’offensiva: «La differenza con altri conflitti sta nel tempo e la dimensione: una popolazione sfollata quasi nella sua interezza, 25mila donne e bambini uccisi, 100mila tra morti, dispersi e feriti. Noi facciamo il possibile: nonostante l’uccisione di 152 colleghi, il nostro staff è incredibilmente coraggioso. Ho persone che hanno perso i familiari e che il giorno dopo erano già al lavoro».

* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto



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