by Michele Giorgio * | 29 Marzo 2024 10:04
Lo scrive il giornale Al Akhbar citando fonti dell’intelligence egiziana. 65 membri della Protezione civile uccisi dal fuoco dei soldati durante l’attacco allo Shifa. Tensione sempre alta al confine tra Libano e Israele
GERUSALEMME. «La vita a Gaza non è mai stata facile, una guerra dopo l’altra, eppure la mia famiglia ed io abbiamo cercato di condurre una esistenza normale, almeno un po’. Abbiamo studiato, cercato un lavoro, cresciuto dei bambini. Ora è finito tutto, ho perduto tutto, intorno a me vedo solo morte, distruzione e sofferenza». Haia Yaghi, 34 anni di Tel Al Hawa (Gaza city), risponde alle domande del manifesto su Whatsapp. «Sono sfollata più volte, a sud e poi al centro di Gaza e di nuovo al sud» prosegue la donna «ho scampato la morte in più di una occasione. Viviamo come bestie, in cinquanta in un piccolo appartamento danneggiato ma ancora in piedi». La ricerca del cibo è una delle priorità, Haia però sottolinea la condizione delle donne, sempre più grave. «Non abbiamo gli assorbenti, non possiamo curare la nostra igiene e quella dei nostri bambini, spesso partoriamo in luoghi sporchi, senza assistenza medica. Siamo disperate, tutti i palestinesi di Gaza sono disperati».
Quelle di Haia Yaghi non sono parole nuove, le abbiamo lette e ascoltate in questi mesi da tanti civili di Gaza. Eppure, lanciano un altro appello al mondo per la fine dell’offensiva israeliana che ha devastato la Striscia gettando nella disperazione oltre due milioni di palestinesi. E la carestia è alle porte, anzi in alcune aree c’è già. Ieri la Corte internazionale di Giustizia dell’Aia ha emesso, dopo quelle comunicate il 26 gennaio, nuove misure contro Israele, ordinando di aumentare la fornitura di beni umanitari di base a Gaza, tra cui cibo, acqua, carburante e ripari. Le misure impongono a Tel Aviv anche di garantire che l’esercito «non commetta atti» che violino la Convenzione sul genocidio «anche impedendo, con qualsiasi azione, la consegna di assistenza umanitaria urgentemente necessaria». Ma appelli, risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, decisioni delle Corti internazionali non fermano Israele. Che va avanti e si prepara ad attaccare la città di Rafah, al confine con l’Egitto, che considera l’ultimo bastione di Hamas, e dove però sono rifugiati 1,4 milioni di civili palestinesi in gran parte sfollati dal nord di Gaza.
Washington si prepara ad accogliere nei prossimi giorni la delegazione israeliana che Benyamin Netanyahu aveva bloccato venerdì in risposta al mancato veto Usa alla risoluzione Onu che chiede il cessate il fuoco immediato (ma provvisorio). In agenda c’è proprio il piano di attacco a Rafah e quello dei comandi militari, di cui si sa poco, per l’evacuazione di oltre un milione di civili. Piano al quale nessuno, fuori da Israele, assegna credibilità considerando l’enorme numero di civili da spostare in pochi giorni e l’assenza di luoghi realmente sicuri dove accoglierli. La catastrofe di Rafah tanto temuta appare all’orizzonte.
Due giorni fa il quotidiano libanese Al-Akhbar, citando fonti dell’intelligence egiziana in contatto con funzionari delle forze armate israeliane, ha riferito che Rafah finirà sotto attacco dopo l’Eid al Fitr, la festa di tre giorni che segue il Ramadan e termina intorno al 12 aprile. Al più tardi l’esercito attaccherà all’inizio di maggio. Si tratta di fonti arabe, non israeliane, ma le informazioni appaiono credibili, se si considera che la preparazione all’invasione di Rafah è in corso già da diverse settimane. Netanyahu e il ministro della Difesa Gallant danno per vicina, molto vicina, «l’offensiva finale», certi di poter sbaragliare «definitivamente» i combattenti di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi e di liberare con la forza i 134 ostaggi israeliani. Questo mentre le famiglie dei sequestrati continuano a manifestare nelle strade di Israele per chiedere un accordo con Hamas per uno scambio tra ostaggi e prigionieri politici palestinesi. Il governo israeliano fa la voce grossa con tutti ma non con l’Egitto, partner da decenni del blocco di Gaza, al quale ha promesso che sarà avvisato in anticipo dell’attacco previsto anche nel cosiddetto Corridoio di Filadelfia, che corre a ovest di Rafah lungo il confine tra la Striscia e l’Egitto. Si preparano a combattere fino all’ultimo respiro anche Hamas e altri gruppi armati. «Non sarà un picnic come pensano i leader di occupazione», ha detto un anonimo dirigente del movimento islamico al quotidiano Al Araby Al Jadeed. «I combattenti della resistenza di tutte le fazioni sono pienamente preparati a infliggere pesanti perdite all’esercito israelianon», ha avvertito.
Continua nel frattempo l’attacco all’ospedale Shifa di Gaza city dove Israele sostiene di aver distrutto centri operativi di Hamas e Jihad e di aver ucciso e arrestato centinaia di membri delle due organizzazioni. La Protezione civile di Gaza invece riferisce che 65 suoi membri sono stati uccisi dai soldati israeliani nell’area dello Shifa. Il ministero della Sanità aggiunge che 76 palestinesi sono stati colpiti a morte tra mercoledì e giovedì, portando il bilancio delle vittime dal 7 ottobre a 32.490.
Al nord, sul confine tra Libano e Israele, la situazione resta tesissima dopo l’escalation degli ultimi tre giorni che ha ucciso almeno 16 libanesi (tra cui numerosi civili) in pesanti bombardamenti israeliani, e un druso israeliano colpito un razzo di Hezbollah caduto sull’area industriale di Kiryat Shmona. In Cisgiordania, spari contro un autobus e una macchina, ieri mattina hanno ferito tre coloni israeliani, tra cui un 13enne.
Un appello per la fine dell’offensiva israeliana a Gaza è stato lanciato anche dal nuovo primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mohammad Mustafa, che ieri ha annunciato il suo governo. L’esecutivo avrà 24 ministri, tra cui quattro donne e alcuni residenti a Gaza. Mustafa sarà anche ministro degli Esteri. Nei giorni scorsi la nomina a premier di Mustafa da parte del presidente dell’Anp Abu Mazen era stata accolta con rabbia da Hamas e dalle critiche di altre forze politiche perché non in linea con la ricerca dell’unità nazionale palestinese.
* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto[1]
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