by Michele Giorgio * | 2 Marzo 2024 12:58
Cresce il numero dei paesi favorevoli alla richiesta dell’Onu di una indagine internazionale sulla strage di almeno 120 civili palestinesi. Ben Gvir: i soldati hanno agito in modo eccellente contro la folla
Non si ha tempo per il lutto nella Striscia, neppure davanti a stragi come quella di via Rashid a Gaza city costata due giorni fa la vita ad almeno 120 persone cadute in massima parte, denunciano con forza i palestinesi, sotto il fuoco dei soldati israeliani. Con il bisogno urgente di trovare cibo non si ha neppure il tempo di piangere i morti. Chi giovedì è scampato alle mitragliate e alla calca è già pronto a tornare alla rotonda Nabulsi ad aspettare i camion con gli aiuti assieme ad altre migliaia di persone. «La gente non ha alternative – ci dice Aziz Kahlout di Tel Al Hawa – perché non si trova nulla a Gaza city e nel nord. Io passo tutto il tempo a cercare generi di prima necessità. Il massacro non può fermarmi, devo sfamare i miei figli».
Adesso gli abitanti di Gaza non scrutano solo le strade devastate dalle bombe sperando di veder apparire i camion provenienti dal sud. Negli ultimi giorni hanno il naso all’insù, guardano gli aiuti lanciati dal cielo con i paracadute. Giordania, Egitto, Francia ed Emirati riforniscono, sia pure con quantitativi limitati di prodotti, le zone del centro e del nord di Gaza. L’iniziativa rappresenta il totale fallimento della comunità internazionale di imporre a Israele l’apertura e la protezione di un corridoio sicuro per la distribuzione regolare degli aiuti ai civili palestinesi travolti dalla sua offensiva militare. Non solo, i morti in via Rashid sono la conseguenza delle restrizioni al ruolo indispensabile a Gaza dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, attuate da Israele e appoggiate dai governi di una ventina di paesi, tra cui quello di Giorgia Meloni (invece l’Ue ha ripreso in parte i finanziamenti). L’Unrwam accusata da Israele di essere «collusa» con Hamas perché 12 dei suoi 13mila dipendenti palestinesi avrebbero partecipato all’attacco del 7 ottobre nel sud dello Stato ebraico, è l’unica organizzazione a Gaza con le capacità e le infrastrutture necessarie per una distribuzione capillare e ben organizzata degli aiuti umanitari (lo fa da decenni). «Questo massacro è la dimostrazione che non si può lasciare agli israeliani la protezione dei palestinesi di Gaza in termini di sicurezza alimentare», ha commentato Chris Gunness, l’ex portavoce dell’Unrwa.
Il rifornimento dal cielo, peraltro, si è rivelato un mezzo fallimento. I pacchi spesso finiscono in mare. I più giovani ed intraprendenti, con imbarcazioni improvvisate, si affrettano a recuperarli. Gli altri palestinesi attendono sulla spiaggia che la corrente porti a riva gli aiuti. Ihab Ali, di Al-Jalaa (Gaza City), è uno di loro. E non è soddisfatto. «Nel mio box – racconta – ho trovato un chilo di zucchero, uno di lenticchie, sacchetti di pasta e sale, del formaggio e tre chili di farina. In condizioni normali potrebbero bastare alla mia famiglia per qualche giorno, ma a casa mia ora ci sono più di 30 persone». I pacchi che cadono dal cielo sono molto contesi e il bisogno spinge anche ad usare la forza per conquistarli. «Questi metodi vistosi non metteranno fine alla crisi, dal cielo arrivano quantitativi troppo limitati per le nostre necessità. Comunque sia, è umiliante per noi litigare per qualche chilo di farina. E per uno che prende gli aiuti altri dieci restano a mani vuote», ha detto un abitante di Gaza city al giornale Al Araby al Jadeed.
Su Israele sale la pressione dopo la morte di tanti civili in attesa di cibo e cresce il numero dei paesi che sostengono la richiesta delle Nazioni Unite di avviare un’inchiesta internazionale sull’accaduto. Il Sudafrica, che accusa Israele di praticare il genocidio a Gaza, ieri ha denunciato il non rispetto da parte di Tel Aviv degli ordini della Corte internazionale di giustizia dell’Aia a protezione dei civili palestinesi. L’esercito israeliano non reagisce. Anche ieri ha continuato ad attribuire la maggior parte delle morti di due giorni fa alla calca attorno ai camion degli aiuti, aggiungendo che i soldati hanno sparato in modo «limitato» contro la «folla minacciosa». Il ministro della Sicurezza di estrema destra Itamar Ben-Gvir, già furioso per la scarcerazione di una cinquantina di palestinesi da mesi in detenzione amministrativa (senza processo e accuse formali), ha dato «sostegno totale» ai soldati che hanno sparato sui civili di Gaza sostenendo che «hanno agito in modo eccellente contro una folla che cercava di far loro del male». Tuttavia, in Israele non manca chi vede nell’accaduto il fallimento del governo Netanyahu che pensa solo a continuare la guerra e che non permette ai palestinesi e alle agenzie internazionali di gestire l’emergenza umanitaria a Gaza. Il quotidiano Yedioth Ahronoth non esclude che la strage di giovedì possa «creare un punto di svolta» e porre Israele di fronte a «pressioni che non sarà in grado di resistere, anche da parte della Casa Bianca». Difficilmente il gabinetto di guerra israeliano fermerà l’offensiva di terra sebbene l’Egitto si dica fiducioso di spingere le parti a una tregua a Gaza prima dell’inizio del Ramadan (10 marzo). Ieri sera mentre migliaia di israeliani scendevano in strada a reclamare un’intesa con Hamas che riporti a casa gli ostaggi a Gaza, Abu Obeida, il movimento islamico ha annunciato che sette dei circa 130 sequestrati sono morti in un bombardamento israeliano.
* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto[1]
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