Capitalismo versus transizione ecologica: il lupo e l’agnello

by Federico M. Butera * | 12 Marzo 2024 9:36

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La crescita economica illimitata capitalistica si sostiene sulla crescita illimitata della estrazione di risorse dall’ambiente, che però ha una capacità finita di fornirle

 

Fino a quando sarà il mercato a decidere sulla transizione ecologica, non ce la faremo mai. Il mercato è cieco, non ha morale, valori. Il capitalismo, che sul libero mercato si basa, conosce un solo imperativo, la massimizzazione del profitto, e subito. Secondo le leggi del mercato, se la transizione ecologica non fa ammassare più ricchezze che il non farla, non la si fa. Non importa che sia in gioco il futuro dell’umanità.

Questo imperativo è legato a un altro: la crescita senza limite, che deriva da una spirale perversa innescata dal fatto che nella logica dell’accumulo di ricchezza il profitto deve sempre aumentare, e per aumentarlo si aumenta la produttività attraverso la riduzione della forza lavoro, diminuendo così i costi. Ma ciò genera disoccupazione, e il lavoratore disoccupato non consuma, e quindi parte della produzione resterebbe invenduta, e addio profitto. Occorre allora che l’economia continui a espandersi indefinitamente per mantenere il tasso di occupazione. Questa è la trappola della produttività, così qualcuno l’ha chiamata, che spiega perché il PIL debba crescere sempre, e perché il successo di un governo si misuri da quanto è cresciuto, poco importa se intanto la sanità e la scuola sono andate in malora, la disuguaglianza è aumentata e l’ambiente è danneggiato.

Ma c’è un problema: la crescita economica illimitata, postulata dal capitalismo, si sostiene sulla crescita illimitata della estrazione di risorse dall’ambiente, che però ha una capacità finita di fornirle. Scriveva l’economista Kenneth Boulding, già nel 1966: «Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista”. Lo aveva capito il popolo indiano americano Cree, con la profezia: “Quando tutti gli alberi sono stati tagliati, quando tutte le acque sono inquinate, quando l’aria è dannosa da respirare, solo allora scopri che non puoi mangiare il denaro».

Osserva Umberto Galimberti, nel suo ‘L’etica del viandante’, che «il capitalismo si trova nella contraddizione di poter realizzare i propri scopi solo attraverso una progressiva distruzione della terra, in cui sono le risorse di cui il capitalismo ha bisogno per realizzare i suoi fini». Quindi o si autodistrugge perché distrugge la sua base vitale oppure, come dice Emanuele Severino, citato da Galimberti: «si convince del proprio carattere distruttivo, e finisce con l’assumere come scopo non più il semplice profitto, ma la sintesi tra profitto e salvezza della Terra–e anche in questo caso il capitalismo perviene alla propria distruzione, perché assume uno scopo diverso per cui il capitalismo è capitalismo».

Il capitale deve sfruttare non solo il lavoro ma anche l’ambiente per prosperare. L’aveva già scoperto Marx, come ci rivela Kohei Saito nel suo “L’ecosocialismo di Carlo Marx”.

Ma intanto, impermeabili a queste considerazioni, ci sono quelli che puntano alla crescita “verde”, confidando nella infinita capacità creativa dell’uomo, contando su nuove miracolose tecnologie, quali la riduzione della temperatura della Terra riducendo l’energia solare che arriva mediante particelle riflettenti iniettate nella troposfera, con effetti indiretti che possono essere catastrofici; oppure l’estrazione e il sotterramento della CO2 estratta dalle ciminiere e dall’aria, con tutti i rischi che comporta, così non c’è più ragione di ridurre la produzione di energia da fonti fossili; oppure ancora il fantomatico nucleare di IV generazione che ci fornirebbe tutta l’energia che vogliamo senza emettere CO2.

Tutto ciò per poter aumentare produzione e consumi energetici senza limite, marginalizzando le rinnovabili, perché è difficile fare diventare merce il sole e il vento, come si è fatto con l’acqua. Ma per farne che, di questa energia? Per estrarre sempre più risorse, evidentemente. E da dove? Da un pianeta finito estraiamo risorse infinite?

Una civiltà in armonia con la natura si basa su valori radicalmente diversi da quelli che governano il capitalismo. L’avidità deve tornare ad essere un vizio, non una virtù, come è ora; la competizione deve cedere il passo alla cooperazione; la sobrietà deve tornare ad essere una virtù, e il consumismo un vizio da estirpare; l’equità deve sempre essere un principio guida. Già Aristotele, nel suo Politica, condannava l’accumulo «senza limite alcuno di ricchezza e proprietà», e tra le massime che erano scritte nel pronao del tempio di Apollo, a Delfi, ce n’era una che diceva: «Niente eccessivamente».

Alla luce di tutto questo, affidarci adesso al capitalismo per salvarci dalla crisi ambientale che ha causato, seguendo il miraggio della crescita “verde”, è come dare l’agnello in custodia al lupo, perché è un sistema economico e culturale geneticamente incompatibile con la natura e le sue leggi.

* Fonte/autore: Federico M. Butera, il manifesto[1]

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