TRA GLI SLOGAN spiccano I believe that we will win e There’s only one decision: no extradition: un ottimismo della volontà ben consapevole che siamo al capolinea degli appelli possibili in un foro britannico. Tecnicamente i suoi avvocati stanno chiedendo un permission to appeal, la possibilità di una nuova udienza d’appello nel disperato tentativo di ribaltare la decisione dell’allora ministra dell’Interno Priti Patel e contestare la sentenza originale del tribunale del 2021 che ne autorizzava il passaggio in mani statunitensi dopo che il giudice monocratico Jonathan Swift gliel’aveva negata nel giugno scorso.

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Se falliscono, verrà messo su un aereo con la fusoliera puntata verso i 175 anni di carcere che rischia una volta atterrato sul suolo statunitense. Per aver pubblicato migliaia di documenti militari e diplomatici riservati relativi alle invasioni Usa in Afghanistan e Iraq, oltre alle famigerate email di Hillary Clinton che hanno contribuito a silurarne la campagna elettorale per la presidenza.

PER LA SENTENZA ci si figurano un paio di settimane di attesa. Uno degli avvocati, Edward Fitzgerald, ha dichiarato in aula che se Assange fosse estradato ci sarebbe «il rischio reale che subisca un flagrante diniego di giustizia». Secondo un altro, Mark Summers, svariati altri giornalisti avevano fatto trapelare informazioni riservate degli Stati Uniti senza essere processati, stigmatizzando il trattamento persecutorio riservato al suo assistito. Nel suo complesso, il team legale di Assange ha inoltre affermato nuovamente di avere prove di un complotto della CIA durante la presidenza di Donald Trump per rapirlo o assassinarlo negli anni in cui era rifugiato nell’ambasciata ecuadoriana a Londra. Un tribunale spagnolo sta indagando separatamente sulle accuse secondo cui una società di sicurezza con sede in Spagna lo avrebbe spiato nello stesso periodo.

ASSANGE È RECLUSO da cinque anni nel carcere duro di Belmarsh: una galera da incubo in una cella minuscola. Un regime che lo ha ridotto a uno stato semi-larvale, come sua moglie, l’avvocata Stella Morris, ha più volte sottolineato. Incapacitato a presenziare, ha partecipato in collegamento video. Con i giornalisti riusciti a entrare relegati in uno spazio privo di supporti tecnici per svolgere il loro lavoro, senza quasi poter vedere né sentire lo svolgersi dell’udienza, a sottolineare quanto la frenesia di Londra di disfarsi di questo fastidiosissimo prigionier sia tutta politica: dal momento che non ha compiuto alcun reato su suolo britannico, è quanto mai imbarazzante doversi piegare supini ai diktat di Washington

Nella peggiore delle ipotesi gli resterebbe un appello in extremis, da presentare presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. E in tutta fretta, giacché la finestra di tempo disponibile a presentarla sarebbe ridicola, un paio di giorni circa. Forse anche meno: Stella Morris ha detto alla folla dopo l’aggiornamento dell’udienza che «il team di Julian dice che, se fallisce, si rivolgerà immediatamente alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma si sbagliano. Il Regno Unito potrebbe metterlo su un aereo prima ancora che l’appello venga presentato».

L’UDIENZA DECISIVA per l’attivista australiano fondatore di Wikileaks era cominciata alle dieci e mezza di mattina. Riprenderà stamane, quando i legali statunitensi avranno l’opportunità di presentare a voce le loro argomentazioni. In quelle scritte, hanno finora accusato gli avvocati di Julian Assange di aver «costantemente e ripetutamente travisato» il caso.

* Fonte/autore: Leonardo Clausi, il manifesto