Clima. La transizione che non c’è
Jean-Baptiste Fressoz, storico della scienza e autore di un saggio che fa discutere in Francia, invita ad abbandonare la retorica sui temi energetici. «Le varie fonti sono in simbiosi fra loro. Tutte le grandi imprese oggi promettono di andare verso la neutralità carbonica e si tende a immaginare un’economia in crescita senza emissioni. Ma questo fa passare in secondo piano il problema della redistribuzione della ricchezza»
Sta facendo discutere in Francia il saggio Sans transition. Une nouvelle histoire de l’énergie («Senza transizione. Una nuova storia dell’energia») pubblicato da Jean-Baptiste Fressoz, storico della scienza e docente alla Scuola di studi superiori in scienze sociali di Parigi. Il libro, edito da Seuil e non ancora tradotto, riprende il celebre detto di Fredric Jameson «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» e rilancia: è più facile uscire dal capitalismo che dall’economia fossile. Eppure, la necessità e la possibilità di una transizione energetica verso le fonti a emissioni zero sembra l’unica praticabile. In fondo si tratta di ripetere ciò che è già avvenuto con il legname, il carbone e il petrolio: ogni 50 anni, l’una ha rimpiazzato l’altra ed è diventata dominante, come mostrano i grafici dei libri di storia dell’energia.
Ora tocca alle fonti pulite, vero professor Fressoz?
Quei grafici descrivono la percentuale corrispondente a ciascuna fonte energetica nel totale dell’energia consumata. Solo negli anni ’70 si è iniziato a raccontare la storia dell’energia in questi termini relativi. In precedenza, per valutare l’uso delle varie fonti si utilizzavano i valori assoluti, cioè quante tonnellate di legna, carbone o petrolio si consumano. E se si guardano i valori assoluti ci si accorge che per nessuna fonte energetica si può parlare di «picco» e che nessuna ha mai smesso di crescere in termini di consumo. La prima, fra qualche anno, potrebbe essere il carbone. Finora non si è mai verificata una «transizione energetica» da una fonte all’altra su scala mondiale.
Più che di transizione, lei parla di «simbiosi» energetica. Cosa significa?
È l’altro punto da sottolineare nella storiografia dell’energia: le fonti sono state considerate come entità separate: prima quella dominante era il legname poi rimpiazzato dal carbone a cui è succeduto il petrolio. Ma questa narrazione nasconde le correlazioni tra le curve, che mostrano un intreccio molto più intenso tra le varie fonti energetiche: il carbone, ad esempio, è stato fondamentale per produrre tutto l’acciaio reso necessario dall’economia basata sul petrolio. E a sua volta, il carbone dipende dal legname: la Gran Bretagna nel 1900 consumava più legname da carpenteria di quanto ne bruciasse nel 1800. Dunque le varie fonti sono in simbiosi tra loro. La simbiosi riguarda anche i prodotti, in cui le diverse materie prime sono sempre più intrecciate. Stiamo guadagnando in efficienza energetica grazie a prodotti sempre più complessi che però sono sempre più difficili da riciclare. Accade con gli smartphone come con le automobili elettriche. E il problema della simbiosi aumenta.
Perché oggi pensiamo che invece sia possibile una transizione energetica?
L’idea deve molto a uno scienziato italiano, il fisico Cesare Marchetti. Negli anni ‘70 è tra i primi ad applicare alle transizioni energetiche le cosiddette curve «logistiche» secondo cui molti fenomeni seguono una dinamica simile a una «S». Pensiamo alla diffusione di un’epidemia: inizialmente la crescita è lenta, poi accelera nella fase centrale e infine si arresta. Marchetti pensava che si potesse applicare anche all’uso delle fonti energetiche, e oggi è criticato per questa visione meccanicistica della storia energetica. Ma è interessante osservare che Marchetti tirò fuori le curve a «S» per spiegare che l’affermazione di una nuova tecnologia o di una nuova fonte di energia non è così rapida perché ci vogliono decenni per sconfiggere l’inerzia di un sistema industriale. Rispetto ai suoi contemporanei, che ritenevano fattibile una transizione rapida, era considerato un «pessimista», perché prevedeva che solo nel 2000 – una data allora lontana – saremmo riusciti a fare a meno del carbone. È una previsione smentita dai fatti. La voce più pessimista degli anni ’70 oggi ci appare troppo ottimista.
La transizione energetica mette in discussione i profitti delle grandi industrie energivore. Non è così?
Anche se sembra contro-intuitivo, lo slogan della transizione energetica fa comodo all’industria. Tutte le grandi imprese oggi promettono di andare verso la neutralità carbonica. Ha iniziato Edward David, direttore delle ricerche della Exxon ed ex consigliere scientifico di Nixon, che nel 1982 pose la questione in questi termini: l’effetto serra è innegabile, ma arriverà prima il disastro climatico o la transizione energetica? I climatologi d’altronde sostenevano che i primi effetti del riscaldamento globale sarebbero stati percepiti all’inizio degli anni 2000, ma che la situazione sarebbe diventata catastrofica intorno al 2080. Invece si dà per scontato che per la transizione energetica bastino 50 anni. Così l’ineluttabilità della transizione è diventata un pretesto per non agire sul breve termine. L’economista e premio Nobel William Nordhaus ha teorizzato addirittura di rimandare la transizione il più tardi possibile, in modo da realizzarla con le tecnologie più avanzate che sarebbero certamente arrivate. L’opinione diffusa era che a breve sarebbero stati sviluppati i reattori nucleari auto-fertilizzanti.
Il mito della transizione energetica è servito a far mettere da parte altre strategie di lotta al cambiamento climatico?
È sufficiente leggere l’ultimo rapporto del gruppo III dell’Ipcc: sono stati esaminati circa tremila scenari e nessuno di questi prende in considerazione la decrescita. È bizzarro che da un lato si parli di una crisi esistenziale ma non la si ammetta nemmeno come ipotesi. La transizione energetica al contrario permette di immaginare un’economia in crescita senza emissioni e questo fa passare in secondo piano il tema della redistribuzione della ricchezza. Inoltre non permette di valutare il valore delle merci che produciamo: il cemento, un materiale ad alte emissioni, può essere usato utilmente per infrastrutture nei paesi in via di sviluppo oppure per beni superflui nel mondo ricco, ma questa discussione non è permessa. All’inizio il gruppo III dell’Ipcc era composto soprattutto da economisti, e ora da specialisti in modelli. Affidiamo il problema agli esperti e escludiamo dal dibattito i cittadini.
Nei movimenti ecologisti questa consapevolezza è presente? Anche molti ambientalisti parlano di transizione energetica…
Sì, la maggior parte dei movimenti sostiene da tempo che non sarà la tecnologia da sola a risolvere il problema del cambiamento climatico. Ma ci sono molti ecologisti di cultura liberale che hanno fatto propria la retorica della transizione, puntando tutto sull’energia solare. Il problema è che ci stiamo rendendo conto che la decarbonizzazione dell’economia è un compito molto più difficile della transizione alle energie rinnovabili.
* Fonte/autore: Andrea Capocci, il manifesto
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