by Emiliano Brancaccio * | 10 Febbraio 2024 10:15
Illudere i piccoli proprietari che si possa rovesciare la centralizzazione capitalistica come se si potesse fare andare il tempo a ritroso, è da sempre il mestiere politico dei reazionari
Se Marx potesse guardare i trattori che oggi marciano sulle metropoli, noterebbe che la sua «legge di tendenza» verso la centralizzazione dei capitali sta agendo nell’agricoltura con una ferocia persino superiore che altrove.
I dati della Fao mostrano che nel mondo la piccola azienda agricola a conduzione familiare resta numericamente rilevante, soprattutto nei paesi più poveri. Ma ogni anno perde quote di produzione, sopraffatta dalle economie di scala delle grandi compagnie. In quasi tutti i rami dell’agricoltura, le prime quattro aziende leader coprono ormai quote di mercato che vanno dal 50 fino al 90 percento del totale.
La tendenza alla centralizzazione del capitale agricolo non risparmia nemmeno l’Italia. L’Istat ci dice che negli ultimi quarant’anni le aziende agricole del nostro paese sono passate da tre milioni a un milione di unità. Nei seminativi, nelle coltivazioni legnose, nei pascoli, ovunque abbiamo assistito all’uscita dal mercato di migliaia di piccoli produttori, i cui terreni e impianti sono stati abbandonati oppure acquisiti dalle aziende più forti. In agricoltura, anche più che nell’industria o nei servizi, il pesce grande mangia il pesce piccolo.
Questo grande processo di centralizzazione del settore determina pure una trasformazione dei rapporti tra capitale e lavoro. Da un lato, la meccanizzazione aumenta la produttività e riduce la forza lavoro necessaria per la produzione. Dall’altro, la percentuale di lavoro salariato diventa preponderante rispetto ai parenti che operavano nella vecchia azienda familiare.
In Italia, in appena un decennio abbiamo registrato un crollo del 30 percento della manodopera occupata, ma al tempo stesso abbiamo assistito a un raddoppio dei lavoratori salariati, dal 25 a quasi il 50 percento del totale. Nei paesi in cui la centralizzazione del capitale agricolo è più avanti, la percentuale di lavoro salariato risulta persino superiore, anche più di tre quarti dell’occupazione del settore.
Un «successo» che pregiudica il futuro[1]
In un tale scenario competitivo, qualsiasi elemento di novità rischia di compromettere la sopravvivenza di un numero ancor più grande di piccole aziende. Dall’aumento del costo dei carburanti alle politiche di tassazione ecologica, dai vincoli dettati dal Green deal fino all’apertura alle importazioni dall’Ucraina, questi mutamenti possono determinare un aumento dei costi tale da mettere fuori mercato altre pletore di produttori che già a stento riuscivano a realizzare profitti.
Ecco spiegata la partecipazione di massa di tanti piccoli proprietari alle proteste di questi mesi. Per le grandi aziende, invece, è diverso. Possono aderire alle politiche ecologiche come all’apertura commerciale all’Ucraina, non certo per una maggiore sensibilità verso la crisi climatica o verso la causa del popolo ucraino, ma perché i più ampi margini di profitto danno loro più margini di libertà politica. Anzi, più aumentano i costi e scendono i prezzi, più le occasioni di liquidare o assorbire i concorrenti aumentano.
Dinanzi a questa immane centralizzazione capitalistica, Salvini, Meloni e gli altri reazionari d’Europa promettono di invertire la tendenza. Per lo scopo si dicono pronti a ripristinare il laissez-faire su pesticidi e gasoli inquinanti. E qualcuno sarebbe anche lieto di barattare con l’Ucraina meno importazioni in cambio di più armi per la guerra.
Illudere i piccoli proprietari che si possa rovesciare la centralizzazione capitalistica come se si potesse fare andare il tempo a ritroso, è da sempre il mestiere politico dei reazionari. E lo fanno meglio di chiunque altro.
Per chi invece ambisca a costruire una sinistra all’altezza di questo tempo di catastrofi, il compito dovrebbe essere un altro. In agricoltura come in ogni altro settore, una lotta di emancipazione dal potere del grande capitale centralizzato può essere rilanciata solo attraverso la riorganizzazione politica delle quote crescenti di lavoro salariato. E solo perseguendo l’obiettivo di una messa «in comune» di quel capitale.
Una moderna pianificazione pubblica è ormai l’unica strada per tenere assieme lotta alle disuguaglianze, difesa dell’ambiente e costruzione della pace. Ed è l’unica politica macro in cui possono prosperare le micro pratiche contadine realmente votate alle filiere corte e alle compatibilità ecologiche. Tutto il resto sono solo venefici pannicelli caldi in mano alle destre.
* Fonte/autore: Emiliano Brancaccio, il manifesto[2]
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