“Piano Mattei”. L’Italia di Meloni cerca un nuovo posto al sole tardo-coloniale
Era il 1950 e per il ministro francese Schuman la Ceca la prima ’unione europea’, serviva al compito storico di «sviluppare l’Africa». Di lì a poco scoppiava la rivolta dell’Algeria
Le istituzioni italiane sono come i polli di Renzo, ognuno vuole la sua parte e becca l’altro senza neppure sapere il perché. Per un Piano Mattei dedicato allo «sviluppo» dell’Africa che è come l’araba fenice di Metastasio «che vi sia ciascun lo dice ove sia nessun lo sa».
Il Piano, per quel che abbiamo letto, ha come sola dotazione gli emolumenti per funzionari dello stato che l’Africa la vedono, se va bene, solo sulla carta geografica. Il resto è noia, come avrebbe detto Califano, nato africano a Tripoli e celebrato ora anche in una brillante serie tv.
Tutto questo avviene, come scriveva ieri Tommaso Di Francesco mentre una parte del Sud del mondo non dimentica i massacri coloniali in Africa e la lotta di liberazione in Sudafrica dall’apartheid che Mandela paragonava a quella della Palestina.
Ma gli africani se la bevono? Anche no, perché ormai la Cina ha surclassato la Francia come maggiore esportatore nel Continente africano. E pensare che nel maggio 1950 il ministro francese degli Esteri Schuman salutava la costituzione della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, affermando, testualmente: «l’Europa sarà in grado di proseguire nella realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano». Eh sì, come no.
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Ai francesi (e agli americani) la Ceca, embrione della futura Unione europea, serviva per tenere a bada la Germania e soprattutto le sue colonie africane che, come l’Algeria, di lì a poco si sarebbe rivoltata contro Parigi con una delle guerre anticoloniali più sanguinose della storia (più di un milione di morti).
Oggi in Africa, come ricordava Marco Boccitto in un acuto editoriale sul manifesto, oltre ai cinesi ci sono i russi «e Vladimir Putin, forte di una verginità coloniale russa in Africa, può atteggiarsi a moderno castigatore del neo-imperialismo occidentale». Ai cinesi e ai russi si aggiunge la Turchia neo-ottomana del sultano della Nato Erdogan, visitato di recente dallo stesso premier italiano Giorgia Meloni.
La vicenda, se non ci fossero di mezzo gli interessi energetici italiani, appare quasi comica. Meloni avrebbe chiesto a Erdogan di darci una mano in Tripolitania per frenare i flussi migratori. Ma nel novembre 2019 quando il generale Khalifa Haftar attaccava Tripoli siamo stati a guardare che la Turchia, con un limitato intervento militare, salvasse il «nostro» governo tripolino. I turchi firmarono allora un memorandum con libici per lo sfruttamento delle risorse del Mediterraneo tracciando, in barba a ogni Legge sul Mare, un confine che va dalle coste libiche a quelle turche, incuneandosi tra Grecia e Cipro. Per far capire chi comanda adesso, Erdogan manda i suoi militari sulle motovedette libiche regalate dall’Italia. Mentre il gasdotto Greenstream tra Italia e Libia, della portata di 10 miliardi metri cubi, ormai è ridotto a poco più di un decimo della sua capacità.
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Ma queste cose il nostro governo le sa? Le conosce perfettamente perché la nostra intelligence e quella dell’Eni informano quasi quotidianamente di quanto avviene sulla sponda Sud che nel 2011, con l’intervento militare franco-americano-britannico e la caduta di Gheddafi, è sfuggita alla nostra influenza. Accadde con il governo Berlusconi di cui oggi celebrano il nefasto trentennale della sua discesa in campo.
È anche grazie alla sua suprema imperizia che i francesi decisero di attaccare la Libia nel contesto delle cosiddette “primavere arabe”. Berlusconi, che in pompa magna aveva ricevuto a Roma in agosto Gheddafi, perse ogni credibilità internazionale e non sapeva cosa fare: nel ridotto del teatro dell’Opera di Roma passò la scottante questione al presidente Napolitano dicendo: «Presidente lei è il capo delle forze armate quindi decida». Fu così che poche settimane dopo l’Italia si unì ai raid aerei bombardando il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo, quello che avevamo salvato persino dall’ira di Reagan e degli americani. Più o meno lo stesso di quel che facciamo adesso, andando a sparacchiare nel Mar Rosso contro gli Houthi yemeniti, senza neppure sapere chi sono e che sono stati bombardati per anni da sauditi e americani, anche con le bombe italiane fabbricate dai tedeschi in Sardegna.
Sono cose che gli africani sanno perfettamente perché la nostra credibilità sul Continente da allora è scesa a zero. Il generale egiziano Al Sisi neppure si presenta domani a Roma, sa perfettamente che proseguiamo nelle nostre consegne di armamenti e conta sul fatto che in questo Pese di sonnambuli ci siamo già dimenticati di Giulio Regeni, torturato e ucciso dai suoi poliziotti. Questa è la “nostra” Africa, lo specchio della nostra ignavia, il resto sarebbero sciocchezze se non ci fossero da prevedere nuovi conflitti e il tentativo di Giorgia Meloni, avamposto dell’Ue, di trovare un altro «posto al sole» tardo-coloniale per istituzionalizzare in Africa, dopo i tentativi criminali e falliti in Libia e Tunisia, un nuovo universo concentrazionario, modello Albania, di «posti sicuri» per i migranti.
* Fonte/autore: Alberto Negri, il manifesto
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