by Iain Chambers * | 28 Gennaio 2024 9:51
Il silenzio dell’abisso in cui risiedono la memoria della Shoah e la responsabilità occidentale per il genocidio è oggi accresciuto dal silenzio dell’Occidente di fronte al massacro in corso a Gaza
Il silenzio dell’abisso in cui risiedono la memoria della Shoah e la responsabilità occidentale per il genocidio è oggi accresciuto dal silenzio dell’Occidente di fronte al massacro in corso a Gaza. Nonostante tutti i tentativi istituzionali di tenerli separati e distinti, per insistere sul fatto che l’antisemitismo non fa parte della più ampia violenza del razzismo, entrambi emergono da un intreccio storico di cui l’Occidente rifiuta di assumersi la responsabilità. Cercare di ragionare in prossimità di questo silenzio, cioè comprendere il genocidio e la pulizia etnica non come un’aberrazione ma come parte integrante della storia della modernità occidentale, tocca una storia più profonda e una sfida politica e critica più radicale. Chiaramente, politici e giornalisti mainstream, assorbiti dalla gestione e dalle spiegazioni del presente, di rado sono disposti a considerare questa sfida più complessa.
Ciò che rimane profondamente inquietante, tuttavia, è il fallimento intellettuale esposto da ciò che sta accadendo a Gaza. Se in Germania politici, filosofi e istituzioni culturali rimangono fermamente sionisti nel loro indiscutibile sostegno a Israele, ripetendo così ancora una volta una risposta totalitaria alla cosiddetta «questione ebraica», altrove in Europa e in Occidente, sia gli intellettuali che le comunità ebraiche (con una certa eccezionalità negli Stati Uniti) si sono in gran parte uniti a questo silenzio, dando così sostegno alla violenza oscena in corso e al sanguinoso smantellamento del credito morale occidentale e della sua screditata custodia dei diritti e dei valori umani. Come disse lo scrittore afroamericano James Baldwin: «Non posso credere a quello che dici, perché vedo quello che fai».
Non a caso, è dal Sud del mondo che si cerca un risarcimento legale per svelare le nostre ipocrisie, e lo stato di diritto viene messo contro coloro che pensano di avere, Soli, l’autorità di applicarlo. È chiaro che, mentre gli ospedali vengono deliberatamente distrutti, le università, le moschee e le chiese fatte saltare in aria, i cimiteri dissacrati, i giornalisti giustiziati e i civili ridotti a danni collaterali, alcune vite contano più di altre.
Questa disposizione razzista del potere e della comprensione è evidentemente troppo brusca e brutale perché la diplomazia politica e la filosofia contemporanea la riconoscano. Eppure, è proprio nel silenzio di quel cuore di tenebra che risiedono e si intrecciano l’antisemitismo e il razzismo occidentale come aveva insisto Hannah Arendt.
Ascoltare, assorbire e parlare accanto a quel silenzio implica non solo smantellare la brutale semantica che apparentemente ci governa, ma anche muoversi in un altro spazio critico e politico in cui la Shoah e le storie della modernità genocida impartiscono un percorso più complesso e ricco di redenzione. Il silenzio può evocare una politica di ascolto e di eventuale comprensione, oppure può semplicemente indicare un vuoto circondato da una retorica moribonda.
Alla luce delle recenti misure proposte dalla Corte internazionale di giustizia in merito alle accuse di genocidio mosse dal Sudafrica a Israele, l’Occidente è ora investito della responsabilità di garantire il rispetto delle sentenze della Corte. Ciò offre l’opportunità di rompere il silenzio della complicità occidentale nelle intenzioni coloniali dello stato ebraico.
Non solo per ripensare la specificità dell’evento preciso della Shoah in un insieme più ampio di storie che sottolineano il ruolo del genocidio nella costruzione della modernità, dagli spazi coloniali al cuore dell’Europa come sostenevano sia Hannah Arendt e Zygmunt Bauman che Aimé Césaire, ma anche per districare inquietanti collegamenti con il suo esito attuale nel Mediterraneo orientale.
Forse il pensiero pubblico europeo e il mondo intellettuale dovrebbero tornare a sostenere la libertà di una discussione più incisiva di questa complessa e scomoda eredità.
Il futuro di Israele (e dei suoi alleati occidentali) non può risiedere eternamente nell’occupazione militare e nella violenza coloniale. Un altro Israele post-coloniale, come ci ha insegnato anche il Sudafrica, potrebbe emergere staccandosi da questa traiettoria omicida. Proprio in nome del genocidio e in onore dell’Olocausto, gli amici e gli alleati di Israele devono ora cercare un altro linguaggio per meglio rielaborare quello che storicamente si è rivelato un progetto eticamente e politicamente condannato. Le scuole, gli ospedali e le università, per non parlare delle migliaia di vite, il 70% delle quali donne e bambini, che l’Occidente ha distrutto con il suo sostegno incondizionato a Israele, ci spingono a considerare altri scenari e iniziative diverse che portino alla necessaria riconfigurazione di un altro Israele.
* Fonte/autore: Iain Chamber, il manifesto[1]
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