by Ivana Bevilacqua * | 20 Gennaio 2024 10:44
Dalla Gran Bretagna all’Australia le lotte di sindacati e reti di attivismo anticoloniale si intrecciano. Con milioni di persone in piazza per Gaza, Londra continua nel sostegno armato a Tel Aviv
LONDRA. Dalla Dichiarazione Balfour del 1917 fino al recente rifiuto britannico di sostenere un cessate il fuoco e alla demonizzazione del Bds, le politiche di Westminster evidenziano il ruolo centrale che la Gran Bretagna continua ad assumere al fianco di Israele.
Ciò si è manifestato negli anni nella reticenza britannica nel sanzionare Israele per la sua continua ed espansiva costruzione di insediamenti in Cisgiordania, cresciuti significativamente dai tempi degli accordi di Oslo, portando alla presenza di oltre mezzo milione di coloni in aree che costituirebbero uno stato palestinese. Inoltre, si può osservare attraverso la costante fornitura di armamenti a Israele, con la conseguente complicità nel sostegno dei crimini di guerra israeliani.
IN TALE SCENARIO, il recente assalto su Gaza ha messo in luce due dimensioni fondamentali del colonialismo: da un lato, lo stretto legame tra guerra e commercio, e dall’altro, il carattere internazionale della lotta ai sistemi di oppressione che li sostengono. Effettivamente, forme di resistenza sempre più intersezionali stanno mostrando come forze coloniali e imperialiste continuino a minare gli ordini politici Indigeni a livello globale utilizzando strutture simili (colonialismo d’insediamento, apartheid), tattiche (potere di polizia militarizzato) e tecnologie di violenza per il furto di terre, espansione territoriale, estrazione di risorse, repressione e criminalizzazione della resistenza.
Tali forme di resistenza si impegnano a svelare la violenza intrinseca di operazioni logistiche apparentemente innocue e a bloccare la circolarità dell’infrastruttura coloniale globale in modo tale da interromperne la riproduzione e accelerazione.
In particolare, le vendite di armi in Gran Bretagna sono nuovamente al centro dell’attenzione a causa dell’implicazione dell’harware militare britannico nella perpetrazione del genocidio che si sta svolgendo in queste ore a Gaza. Dal momento in cui il governo conservatore è salito al potere nel maggio 2015, sono state autorizzate vendite di armi per un valore di 472 milioni di sterline alle forze di occupazione israeliane.
Queste includono componenti di vario tipo per apparecchiature militari come aerei, elicotteri, droni, ordigni esplosivi, missili, tecnologia militare, veicoli carrozzati, carri armati, munizioni e armi leggere. Tuttavia, il sistema di licenze che regola questi scambi manca intenzionalmente di trasparenza, il che significa che è difficile determinare esattamente quale sia il reale profitto delle merci negoziate.
Un esempio notevole dell’apporto britannico all’arsenale israeliano è rappresentato dagli aerei da caccia statunitensi F-35 attualmente utilizzati da Israele nell’offensiva a Gaza. Sebbene la legislazione britannica proibisca la concessione di licenze di esportazione di armi in presenza di un «rischio effettivo» di violazione del diritto umanitario internazionale, circa il 15% del valore totale di ciascun F-35 proviene da componenti prodotti in Gran Bretagna.
Delle oltre 400 aziende coinvolte nella catena di fornitura del F-35, ben 79 sarebbero infatti situate nel paese. Ad esempio, Leonardo, una multinazionale italiana con otto stabilimenti in Gran Bretagna, produce il sistema di puntamento laser per l’F-35 a Edimburgo, mentre Rolls-Royce, a Filton (Bristol), è responsabile della realizzazione del sistema di propulsione a ventola LiftSystem per lo stesso aereo. Dal 2003, equipaggiamenti di fabbricazione britannica si trovano anche nei caccia F-16I che costituiscono una delle principali componenti dell’aviazione israeliana impegnata nei bombardamenti su Gaza.
MA MENTRE istituzioni politiche e aziende britanniche continuano a offrire un sostegno incondizionato alla macchina da guerra israeliana, diverse centinaia di migliaia di persone hanno manifestato in molte città del Regno unito per esprimere la propria solidarietà al popolo palestinese, chiedendo un immediato cessate il fuoco, la fine dell’occupazione e lo smantellamento del progetto sionista in Palestina.
La più grande: 800mila a Londra per la Palestina[1]
Da ormai tre mesi, ogni sabato, Londra è teatro di imponenti manifestazioni, culminate l’11 novembre con la presenza di circa un milione di manifestanti che hanno marciato per le strade della capitale. In parallelo, centinaia di persone stanno agendo attivamente per ostacolare la produzione e il trasporto di armi verso Israele.
Rispondendo all’appello di oltre 30 sindacati e associazioni professionali palestinesi di porre fine al riarmo internazionale di Israele e alla complicità con i suoi crimini contro i palestinesi, sindacalisti e attivisti sono intervenuti in siti chiave di produzione e distribuzione di armi nel Regno Unito. Questa serie di azioni dirette ha incluso blocchi da parte di centinaia di sindacalisti presso BAE Systems a Rochester (Kent) e della Instro Precision Systems, una filiale della compagnia israeliana di armi Elbit. Nel frattempo, il gruppo di attivisti Palestine Action è intervenuto contro Leonardo a Edimburgo e presso la sede di Londra, nonché presso il Ministero degli Esteri, in concomitanza con il 106° anniversario della Dichiarazione Balfour.
In risposta dall’appello palestinese, si è registrato un incremento significativo di azioni sindacali anche in altri settori. I membri del sindacato Unite hanno redatto e inviato una lettera aperta alla direzione, mentre diverse sezioni sindacali stanno adottando risoluzioni in segno di solidarietà con la Palestina. Anche uno dei più grandi sindacati britannici, Unison, ha espresso il suo sostegno per un immediato cessate il fuoco, così come l’ Unione Nazionale Lavoratori Ferroviari, Marittimi e dei Trasporti (RMT) ha sollecitato la fine immediata delle ostilità su tutti i fronti, incluso l’assedio di Gaza.
Sindacati indiani: «Solidali con la Palestina. I nostri lavoratori non andranno in Israele»[2]
Parallelamente, studenti e docenti sia nelle scuole che nelle università continuano a manifestare il loro dissenso contro il supporto istituzionale fornito a Israele attraverso assemblee settimanali, proteste, sit-in, walk out, e partecipazione a scioperi internazionali. In particolare, l’Ucu, ovvero il principale sindacato universitario, ha adottato diverse risoluzioni in università come il King’s College London e l’University College London, sottolineando l’urgenza di un immediato cessate il fuoco, il disinvestimento da aziende coinvolte nella colonizzazione sionista della Palestina e la salvaguardia della libertà accademica, enfatizzando la necessità di proteggere studenti e docenti che sono stati soggetti a discriminazione e repressione istituzionale a causa della loro lotta a fianco del popolo palestinese.
MA GLI ATTACCHI all’infrastruttura logistica coloniale capitalista si stanno moltiplicando anche a livello globale. Oltre ai palestinesi, altri gruppi indigeni come i Coast Salish “Water Warriors” hanno fatto notizia per aver raggiunto le acque della tribù Puyallup a bordo della tradizionale canoa Nisqually, bloccando temporaneamente una nave militare statunitense con armi dirette a Israele vicino il porto di Tacoma, Washington.
Centinaia di manifestanti hanno anche bloccato il porto di Oakland (California) in diverse occasioni per opporsi al supporto statunitense ad Israele. Nel Missouri, gli attivisti hanno assediato la fabbrica Boeing, produttrice di munizioni di precisione utilizzate dall’aviazione israeliana durante le operazioni militari a Gaza. Boeing si configura come una delle aziende con maggiore coinvolgimento nell’assalto genocida a Gaza, avendo esportato ben 2,8 miliardi di dollari nell’industria militare verso Israele dal 2000.
Allo stesso tempo, anche fabbriche e porti in Italia, Spagna, Australia, sono stati frequentemente oggetto di blocchi da parte di sindacalisti, in segno di solidarietà con la causa palestinese. Ad esempio, il comitato sindacale autonomo SI Cobas ha dichiarato di opporsi e boicottare la «spedizione di armi a Israele di cui vengano a conoscenza», ribadendo che la «giusta soluzione della questione palestinese […] potrà venire solo dalla lotta comune dei lavoratori del Medio Oriente, di tutte le etnie e religioni, con il sostegno dei lavoratori di tutto il mondo».
Anche Ravenna contro le navi di armi dirette nei porti israeliani[3]
COME sottolinea la geografa Deborah Cowen, in queste lotte contro la logistica, i vecchi nemici dell’impero, ovvero «pirati, comunità indigene, disertori e ribelli» sono tra i gruppi che oggi pongono la sfida più significativa alla sicurezza della circolazione globale.
L’importanza delle loro azioni risiede nel rivelare che nonostante l’infrastruttura coloniale capitalista si presenti come una struttura coesa ed impenetrabile nell’intento di scoraggiare la lotta stessa, la sua vera natura è costituita da una rete fragile di connessioni fluide e suscettibili di cedimento, che può essere effettivamente disarticolata e smantellata attraverso l’azione collettiva. È probabilmente proprio attraverso la solidarietà internazionale di tali gruppi e il legame imprescindibile delle loro lotte che un nuovo futuro decoloniale può essere davvero costruito.
* Fonte/autore: Ivana Bevilacqua, il manifesto[4]
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