Populismo penale. La legge dura con i deboli, il ministro latita

Populismo penale. La legge dura con i deboli, il ministro latita

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Dopo anni di miraggi, fallimenti e di inganni dell’opinione pubblica, non è credibile una politica che si limita ai proclami sugli aumenti di pena e alle grida repressive

 

È qui che viene in primo piano la galleria di «stracciati», per i quali il governo alza al massimo l’asticella della repressione penale, introducendo nuovi delitti – dall’induzione all’accattonaggio alla rivolta in istituti penitenziari – o innalzando le pene per i reati tipici degli emarginati.

Una politica penale dura, attuata con una tecnologia legislativa «a spizzico», che aggiunge, aggrava, infoltisce a senso unico divieti e pene. Ed è da quest’ottica di polizia che scaturisce un disegno di legge che sembra ricalcato su di un mattinale di questura. Solo qualche esempio. Più carcere – da due a sette anni di reclusione – per chi occupa case, ma anche per chi «si intromette o coopera» nell’occupazione. Altro bersaglio, il mondo della mendicità, con sanzioni sino a sei anni per l’organizzazione e il favoreggiamento dell’accattonaggio di minori o di persone non imputabili e pene molto maggiori per i casi di «costrizione». Su di un diverso piano si colloca l’aumento di pena – da due a sei anni – per le truffe commesse ai danni di persone fragili e indifese e di anziani.

Anche se i dati statistici sulla criminalità non segnalano una emergenza sicurezza, alcuni dei reati elencati nel disegno di legge governativo sono particolarmente odiosi ed insidiosi e non se ne può sottovalutare la gravità. Ma dopo anni di miraggi, di fallimenti e di inganni dell’opinione pubblica, non è più credibile una politica che si esaurisca nei proclami sugli aumenti di pena e nelle grida repressive. Grida e proclami, in teoria destinati a rassicurare ma che ormai valgono solo a distogliere da risposte meglio calibrate, fondate su misure sociali, interventi mirati verso le aree di devianza ed efficaci alternative al continuo inasprimento delle pene detentive.

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L’ottica di polizia del provvedimento si esprime anche su un altro versante: l’attenzione riservata agli apparati di sicurezza. Attenzione che però non si traduce in maggiori investimenti in formazione e dispositivi di tutela ma solo in una raffica di aumenti di pena per i reati di violenza e resistenza ad ufficiali e agenti di polizia e per le lesioni cagionate agli agenti in servizio. Per il resto la risposta è una sorta di «fai da te», giacché gli agenti, quando sono in borghese, potranno portare un’arma diversa da quella di ordinanza, ritenuta troppo pesante, ingombrante e visibile.

Da queste prime osservazioni inevitabilmente parziali – il disegno di legge è composto di ben 21 articoli e spazia in campi molto diversi tra di loro – emerge con sufficiente chiarezza un dato politico: la primazia del ministro dell’interno non solo nel dettare la politica della sicurezza pubblica ma anche la politica criminale. Dal canto suo il ministro della giustizia appare sempre più come uno sbiadito comprimario, una sorta di «intendenza» che segue l’impetuosa avanzata del collega dell’interno, limitando la sua sfera di interessi e di azione alle garanzie da riservare ai colletti bianchi.

Del resto di una tale egemonia si è avuta una indiretta ma eloquente riprova nella proposta di recente avanzata, o meglio riesumata, da Nordio, di trasformare il pubblico ministero in «avvocato della polizia». Proposta, formulata in un passato ormai lontano da Silvio Berlusconi, che porrebbe fine all’indipendenza del pubblico ministero e lo ridurrebbe a terminale processuale delle iniziative penali promosse dalle diverse forze di polizia operanti sotto il comando e l’impulso dei ministri dell’interno, della difesa e dell’economia.

Si delineano dunque con crescente nettezza le linee della politica della giustizia del governo di centro destra. Una giustizia penale che privilegia un solo aspetto della questione sicurezza – quello della microcriminalità di strada – ed è incline all’arrendevolezza e al disarmo verso altre forme, non meno gravi ed insidiose, di criminalità: tributaria, finanziaria, politico-amministrativa. Un garantismo a senso unico, soccorrevole ed attento al rispetto delle garanzie solo nei processi degli ottimati. Ed infine un processo penale che si vorrebbe appaltare, nella fase delle indagini, alle diverse polizie, con il pubblico ministero relegato al ruolo «servente» di difensore delle testi accusatorie degli uffici di polizia.

Prospettive negative che potranno essere scongiurate solo se il mondo della giustizia saprà trovare una voce concorde e parlare alla più ampia opinione pubblica rappresentandole i rischi dell’attuale politica del diritto.

* Fonte/autore: Nello Rossi, il manifesto



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