Netanyahu l’israelo-americano

Netanyahu l’israelo-americano

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Parte rilevante della sua biografia è legata agli Usa. Mai un leader israeliano ha interagito personalmente come lui con gli ambienti politici, culturali ed economici statunitensi

 

Benjamin «Bibi» Netanyahu, ormai uno zombie politico nel suo paese, si muove con ostentata determinazione come comandante-in-capo di una guerra sporca, ben sostenuto da quegli ambienti americani con cui ha da tempo solidi rapporti personali, nel Partito repubblicano e nelle organizzazioni ebraiche a esso contigue. Le recenti dichiarazioni di molti esponenti di primo piano del Grand Old Party fanno raggelare, sono inni alla distruzione di Gaza, fino alla cancellazione del popolo palestinese. E nella recente conferenza annuale della Republican Jewish Coalition, la grande star era Donald Trump, osannato quando ha affermato che, fosse stato lui il presidente, «non avreste avuto l’Ucraina, non avreste avuto Israele attaccato», impegnandosi, se rieletto, «a difendere il nostro amico e alleato lo stato d’Israele come mai nessuno prima».

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In prima fila ad applaudirlo, stucchevolmente omaggiata da Trump, Miriam Adelson, padrona di casa nel suo Hotel Venetian, copia della città dei Dogi, dove si è tenuta la conferenza. Tra le persone più ricche del mondo, la vedova di Sheldon Adelson, israeliana, è una mega-donor del Partito repubblicano e lo è stata di Trump e di Bibi nelle loro campagne elettorali.

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Netanyahu si sta muovendo, nella sua conduzione della guerra, avendo in mente un cambio politico al vertice americano, nella prospettiva del ritorno di un repubblicano alla Casa Bianca, e si adopera per favorirlo come può, anche contando sulle crescenti incertezze nello stesso campo democratico sull’opportunità di ricandidare Biden. Che infatti tratta come un presidente azzoppato. Biden, da parte sua, da politico navigato, allo scoppio della crisi, aveva provato a giocare d’anticipo, volando in Israele, come volesse «commissariare» Netanyahu e scongiurare lo scenario di guerra a oltranza che poi invece si è prodotto e nel quale il leader israeliano si trova a perfetto agio, costringendo via via l’alleato americano ad acconciarsi al fatto compiuto, anche se in apparenza riluttante.

Netanyahu è il primo premier israeliano nato (1949) in Israele dopo la costituzione dello stato ebraico. Ma è anche il primo premier culturalmente “all American”. Parte rilevante della sua biografia s’intreccia con gli Stati Uniti. Mai un leader israeliano aveva avuto una altrettanto notevole capacità di interagire personalmente con gli ambienti politici, culturali ed economici americani. Il rapporto con l’America inizia presto. Dopo l’infanzia e la prima giovinezza a Gerusalemme, nel 1963 va oltre oceano. La sua famiglia vive in Pennsylvania, a Cheltenham Township, un sobborgo di Filadelfia, dove Bibi frequenta il liceo locale. Degli anni di Filadelfia, gli resta lo spiccato accento della città.

Dopo il servizio militare tornerà negli Usa, a Boston, per studiare architettura al Massachusetts Institute of Technology. Studia anche a Harvard. In quegli anni cambia nome, si fa chiamare Benjiamin Ben Nitai (in riferimento al monte Nitai), una decisione che gli sarà fatta pesare come sintomo di una mancanza di attaccamento e lealtà all’identità israeliana. In un’intervista chiarirà di averlo fatto perché il suo cognome era di difficile pronuncia per gli americani.

Nel 1976 comincia a lavorare nel settore privato, a Boston, dove la sua vita s’incrocia con quella di Mitt Romney, e cominceranno un’amicizia e un sodalizio robusto che durerà nel tempo. Rientrato in Israele, Netanyahu è poi di nuovo negli Usa nel 1982. Ha trentatré anni ed è già un alto dirigente politico. In queste vesti torna in America numero due dell’ambasciata a Washington. Due anni dopo il balzo a New York, dove assume la guida dell’ambasciata alle Nazioni Unite, fino al 1988. Poi il ritorno in patria e la carriera politica che lo porta ai vertici del paese.

Ci arriva anche grazie a una campagna elettorale in puro stile americano, quando vince le elezioni, nel 1996, contro Shimon Peres, grazie alla strategia di Arthur Finklestein, un political operative repubblicano che ha avuto tra i suoi “clienti” anche Ronald Reagan.
Proprio il suo essere un “insider” della politica americana lo renderà una sorta di oppositore interno a Obama (e quindi del vice, Biden). Nelle presidenziali del 2012, l’antica amicizia con Mitt Romney si trasforma in un plateale asse politico teso a impedire la rielezione di Obama. Mai prima un capo di stato estero, sia pure il massimo alleato e amico degli Usa, aveva preso parte attivamente alla campagna presidenziale americana schierandosi con uno dei contendenti, sfidante del presidente in. carica. Identica “sceneggiatura” con Trump, contestato dai liberal ebrei americani, ma suo solido alleato nel piano che sfocerà nel Patto d’Abramo, con i sauditi, peraltro una delle cause dell’attuale conflitto.

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L’«assunto» fondamentale su cui poggiava storicamente la relazione speciale tra America e Israele – innanzitutto dal punto di vista della comunità ebraica statunitense – voleva che il sostegno a Israele fosse una questione rigorosamente bipartisan nella politica americana, non di un partito, men che mai di un partito contro l’altro. Così era stato fino all’apparizione sulla scena di Bibi, che. ormai il più longevo politicamente dei premier israeliani, è riuscito nell’impresa di rimodellare quel rapporto in funzione degli interessi dei conservatori – e oggi dei suprema

* Fonte/autore: Guido Moltedo, il manifesto

 

 

ph by DonkeyHotey, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

 



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