Necro-capitalismo. Per Bifo «l’unica strategia è la diserzione»
Il filosofo Franco Berardi «Bifo» ha progettato una scuola di sopravvivenza alla crisi planetaria, che si è riunita sull’isola croata di Vis. «Il collasso climatico è sotto gli occhi di tutti ma il profitto non si ferma, rendiamoci autonomi»
Lo scorso settembre un centinaio di persone si sono incontrate sull’isola di Vis, in Croazia, per presentare Issa (Island School of social autonomy), il progetto di una scuola che si interroga su come sopravvivere ai tempi di una crisi planetaria che dirige l’umanità verso la catastrofe. Tra teorie filosofiche e pratiche sostenibili, la scuola va alla ricerca delle conoscenze utili per vivere meglio il presente quando non si intravede un futuro migliore. Un esercito di nichilisti? Lo scrittore e filosofo Franco “Bifo” Berardi è uno dei fondatori del progetto. Disertare. Dalle armi, dalla guerra, dallo sfruttamento, dall’«eroismo isterico», dal profitto, dal consumo, dal progresso. Disertare dai limiti e dalle imposizioni del sistema di governo globale è la riflessione che attraversa i suoi scritti più recenti.
La scuola vuole essere un luogo di diserzione? A che scopo farsi gli affari propri e dare valore ad altre dimensioni dell’esistenza, per inceppare e mandare a rotoli il meccanismo?
Il progetto si propone di avviare centri di ricerca di un sapere che al momento ci manca. Il sapere che riguarda la nostra sopravvivenza come individui e come comunità in condizioni ambientali mutate al punto che ci muoviamo «come alieni in un pianeta sconosciuto» (per citare il giappone Sabu Kosho che ha scritto Radiation and Revolution, un libro sulle conseguenze dell’evento di Fukushima). Le risposte politiche ereditate dal ventesimo secolo sono tutte inconsistenti. L’azione politica, quella (scarsa) che si definisce di sinistra, e quella (debordante) che si definisce di destra sono ridotte a rituali inefficaci: proclami rabbiosi, o tentativi di prevenire il panico con vecchie ricette la cui validità è scaduta da un pezzo. Forse dovremmo partire dall’ammissione di un fallimento della ragione politica, e senza aspettare più niente dalle decisioni della politica, dovremmo cominciare a chiederci: come vivremo se l’edificio della civiltà sociale si disintegra, come pare stia accadendo? A questa domanda vorrebbe rispondere la scuola dell’isola di Vis, che comunque per il momento non esiste. È soltanto un progetto. A Vis ci siamo visti, abbiamo discusso di questi temi con un centinaio di persone per gran parte jugoslave. Prima abbiamo visitato i luoghi della resistenza e della liberazione dell’isola dai nazi-fascisti. Poi abbiamo ragionato su come vivremo ora che la peste nera, sconfitta nel 1945, sta ritornando dovunque.
Già nel 1972 il rapporto del club di Roma «I limiti dello sviluppo» segnalava il superamento da parte dell’umanità dominante di una soglia. Da allora è stato un susseguirsi di allarmi. Che senso ha comprendere la realtà se poi non c’è la volontà di cambiarla?
Qualche volta la volontà non basta. Anzi, se posso essere sincero credo che la volontà sia una facoltà cognitiva enormemente sopravvalutata dai moderni. La boria della volontà, l’eroismo machista romantico e futurista ci ha indotto a credere che la politica può tutto, mentre può poco, e adesso può quasi niente. Quello che mi spaventa dell’ondata reazionaria non è la malizia delle volontà ma l’abissale ignoranza, e l’aggressività che deriva dall’impotenza quando il culto psicotico della potenza ti impedisce di fare i conti con la realtà. Nel ventesimo secolo non abbiamo saputo fare la cosa più importante di tutte: liberare il sapere tecnico dal dogma dell’economia. Il lavoro cognitivo non ha saputo liberarsi dalla dittatura del profitto e della guerra. Ecco allora Oppenheimer in trappola, ecco il sapere ostaggio del sistema militare e finanziario, ecco le tecnologie elettroniche funzionare come accelerazione dello sfruttamento. Il movimento operaio ha perduto anzitutto per questo, mi pare. Gli allarmi per la devastazione dell’ambiente servono a poco quando nessuno è disposto ad abbandonare il modello fondato sulla crescita illimitata, quando la redistribuzione della ricchezza è culturalmente inammissibile. Ora il collasso climatico è sotto gli occhi di tutti (e nella pelle di tutti), ma questo non cambia nulla, perché il profitto dei produttori di plastica è più importante dell’effetto che le microplastiche producono sull’organismo. E la difesa dei confini nazionali è più importante della vita di coloro che senza averlo chiesto sono stati messi al mondo, e adesso servono come carne da cannone da massacrare in nome del liberal-fascismo e dei confini della patria.
Il dibattito mondiale è totalmente concentrato sul riscaldamento globale, mentre tutti gli altri disastri ambientali provocati dall’essere umano sono quasi del tutto rimossi, nonostante ci si ammali e si muoia qui e ora. A risolvere la crisi si propone come unico soggetto colui che l’ha creata, ovvero il capitalismo in salsa green: quanto gli ambientalisti sono finiti dentro questa trappola?
Il ciclo della terminazione comincia a delinearsi in tutta la sua complessità: il capitalismo ha distrutto l’equilibrio ambientale e avviato la mutazione climatica e geologica. Questa mutazione provoca enormi migrazioni, spostamenti di masse umane prevalentemente del Sud, che non hanno più un territorio vivibile, a causa della crescita del Nord. La grande migrazione suscita una reazione panica che si manifesta nell’epidemia di demenza nazionalista e nella guerra. La guerra devasta territorio e comunità riattivando il ciclo della terminazione. Il capitalismo green è un business destinato a durare poco, incrementando i profitti dell’uno per cento della popolazione bianca, che si prepara a emigrare su Marte insieme a Elon Musk. E gli ambientalisti chi sarebbero? I nazional-verdi tedeschi, Robert Habeck e Annelise Baerbock, questi due signori che hanno deciso di riaprire le miniere di carbone in nome dei valori della civiltà occidentale, che poi sarebbe quella di Auschwitz e di Hiroshima? Il solo ambientalismo che sia intellettualmente all’altezza della situazione è quello dei ragazzi che si autodefiniscono Ultima generazione. L’ultimità è la condizione nella quale ci troviamo, qualsiasi cosa faccia o non faccia la politica. Quando dicevamo Socialisme ou barbarie non stavamo scherzando. Il socialismo ha perso e non sono sicuro che avrebbe comunque potuto rimediare a cinque secoli di colonialismo e devastazione. In ogni caso non c’è più nessuno che voglia (e men che mai possa) fermare la terminazione dell’umano. È urgente riconoscerlo, perché solo chi riconosce che il tempo è scaduto potrà ragionare sulla possibilità di sopravvivenza collettiva di comunità autonome in diserzione.
Nell’ottica della diserzione, come vede chi scende ancora in piazza, che sia per l’ambiente, per il lavoro, per l’inclusione sociale? E chi si mobilita per il clima attanagliato dall’eco-ansia?
Riempire le piazze, occupare le facoltà universitarie (come sarebbe urgente) non va inteso come una mobilitazione della volontà per governare l’ingovernabile. L’incontro assembleare serve a curarsi, serve a curare la psicosi di massa che nessuno psichiatra è in grado di curare. Nel 1919 Sandor Ferenczi disse che la psicoanalisi poteva curare le nevrosi individuali ma non la psicosi di massa. Ho sempre pensato che la mobilitazione collettiva non serva a fermare il potere, a rovesciarlo o correggerlo, ma serve a consolidare solidarietà e quindi autonomia. Neanche nel 1968 pensavo che avremmo vinto, che avremmo fatto la rivoluzione e preso il potere e che avremmo raddrizzato le gambe ai cani. Non l’ho mai pensato seriamente. Vedevo come era andata a finire in Unione Sovietica, e pensavo: meglio non riprovarci, finirebbe certamente male. Ho sempre pensato e penso più che mai oggi che la dimostrazione, l’occupazione, il corteo siano occasioni per mobilitare le energie della solidarietà, della ricerca collettiva. Oggi è importante creare occasioni di mobilitazione collettiva per sperimentare forme di vita frugali e solidali, indipendenti dal mercato, indipendenti dallo stato. Organizzare su basi di massa la diserzione dal necro-capitalismo: questo è quel che molti stanno cominciando a fare. Cercare linee di fuga, nicchie di sopravvivenza autonoma. Molti lo stanno facendo: abbandono di massa del lavoro, diserzione dalla guerra, diserzione dalla riproduzione del genere umano in condizioni disumane.
A maggior ragione in questo momento in cui la disumanità della condizione umana è particolarmente evidente e la frustrazione è più che mai una condizione comune?
Sono giunto alla conclusione che siamo di fronte alla situazione che definirà le nostre vite, la traccia etica e intellettuale che lasceremo. I nostri nipoti (se avranno voglia di occuparsi di noi) non si chiederanno cosa abbiamo fatto nel 1968 o come abbiamo reagito davanti agli attentati fascisti degli anni 80, o al rapimento di Aldo Moro. Si chiederanno invece: come si è comportata mia nonna, cosa ha detto e cosa ha fatto mio nonno, quando si è reso conto del fatto che in un posto che si chiama Gaza era in corso un genocidio non dissimile da quelli che dal 1942 in poi i nazisti condussero contro gli ebrei, i rom, gli omosessuali, i comunisti, per citare soltanto uno degli innumerevoli eccidi che hanno segnato la storia umana? Sono consapevole del fatto che all’inizio del genocidio in corso c’è un pogrom, un’azione di violenza atroce. Ho riflettuto e letto molto e provo molto dolore e molta vergogna.
* Fonte/autore: Serena Tarabini, il manifesto
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