Amal Abu Samadana, 24 anni di Khan Yunis, aspetta un figlio, il secondo. «Nascerà a fine gennaio» ci dice, grazie all’aiuto di un collega palestinese che ha potuto passarci la sua testimonianza prima del blackout delle comunicazioni annunciato ieri pomeriggio della compagnia Paltel, senza più carburante per i suoi generatori di elettricità. Amal ha paura ora, come tutte le altre donne che partoriranno nelle prossime settimane e nei prossimi mesi a Gaza. Secondo dati forniti dall’Onu e da Save the Children, 15mila donne di Gaza daranno alla luce un figlio entro il 31 dicembre, nella più assoluta precarietà. «Ho sentito di donne che hanno dovuto partorire in scuole, rifugi, sotto le tende, solo con l’aiuto di altre donne» racconta Amal «io qui ci vivo, ma non voglio partorire in casa, voglio andare in un ospedale, è più sicuro per me e il bambino».

Amal ha ragione, ma ventidue dei 36 ospedali di Gaza non sono più operativi. E le immagini giunte dallo Shifa di neonati prematuri tolti dalle incubatrici per mancanza di elettricità hanno contribuito ad accrescere le preoccupazioni di chi è incita in un territorio devastato dall’offensiva israeliana e nel pieno di una crisi umanitaria che si aggrava di giorno in giorno. 180 donne partoriscono ogni giorno a Gaza, il 15% con complicazioni, secondo statistiche delle Nazioni unite. E in queste settimane, a causa dei bombardamenti e dell’affaticamento fisico alcune di loro hanno avuto un aborto spontaneo.

Save the Children denuncia che a causa della guerra le palestinesi devono affrontare «un momento in cui la popolazione è tagliata fuori dai rifornimenti essenziali. L’acqua pulita scarseggia, il cibo e le medicine si stanno esaurendo e le donne incinte o che allattano faticano a trovare cibo». L’ong riferisce la testimonianza di Maha, parte del suo personale ora sfollata a sud. «Le scene negli ospedali erano orribili – ha detto – donne incinte nei corridoi che urlavano di dolore. Neonati non identificati nelle incubatrici, senza alcun familiare in vita. Il carburante è finito, sono dovuta scappare, non so se sono sopravvissuti». In questo momento a garantire un servizio ostetrico minimo è l’ospedale Al Hilu di Gaza city, ma è difficilmente raggiungibile dei bombardamenti e dei danni alla rete stradale che impongono di percorrere a piedi diversi chilometri per spostarsi da un centro abitato all’altro. Abdel Hakim Shehata, ostetrico e ginecologo allo Al-Shifa conferma che «Dall’inizio dell’attacco a Gaza, un gran numero di donne ha avuto parti prematuri e aborti, causati dalla paura e dal panico e a noi ormai manca tutto nel campo della medicina». L’Unpfa (Onu) cerca di fornire kit sanitari per un parto più sicuro alle future mamme ma si tratta di aiuti limitati e tante delle donne incinte non sono raggiungibili.

Ieri i carri armati hanno circondato anche l’ospedale Al Ahli di Gaza city, limitando il soccorso a feriti e ammalati, ha riferito la Mezzaluna rossa. L’Ahli il mese scorso è stato al centro di uno violento scambio di accuse dopo una potente esplosione che ha causato, secondo il ministero della sanità di Gaza, oltre 400 morti. Causa dell’esplosione, insistono i palestinesi, è stata una bomba sganciata da F-16. Per l’esercito israeliano invece ad uccidere, un numero sensibilmente più basso di persone, sarebbe stato un razzo malfunzionante, sparato dal Jihad islami, caduto nel parcheggio dell’ospedale. Ma è lo Shifa che resta sotto i riflettori. Reparti militari israeliani continuano ad «ispezionare» il più importante degli ospedali palestinesi alla ricerca di un quartier generale di Hamas che, sostengono, si troverebbe sotto l’ospedale. Sino ad oggi però hanno mostrato solo immagini di alcune sale nel seminterrato dell’ospedale in cui sono state ritrovate  armi, qualche computer e materiali vari. Non la rete di gallerie sotterranee di cui hanno denunciato l’esistenza per giorni, con l’appoggio dell’intelligence statunitense. Il ritrovamento più importante sino ad ora è stato il corpo senza vita di un ostaggio, Yehudit Weiss, 64 anni, rapita da Hamas il 7 ottobre assieme ad oltre 200 israeliani e stranieri. Il cadavere era in un edificio nei pressi dello Shifa, insieme ad equipaggiamento militare e fucili. Dopo l’identificazione, è stata informata la famiglia della donna morta per cause al momento non note. Weiss, madre di cinque figli, viveva nel kibbutz Be’eri. Suo marito, Shmulik Weiss, era stato trovato assassinato nel rifugio della loro abitazione.

A Gaza restano lontane la tregua generale e anche le «pause umanitarie» di cui ogni tanto parla l’Amministrazione Biden. L’offensiva militare è la priorità del gabinetto di guerra guidato da Benyamin Netanyahu, anche sulle trattative in corso per la liberazione degli ostaggi. Reparti israeliani sono tornati nel campo profughi di Shate, in macerie in buona parte, scontrandosi con militanti di Hamas. Il movimento islamico ha subito forti perdite – Israele sostiene di aver annientato 14 dei 24 battaglioni nemici –, eppure continua ad opporre resistenza pur nella evidente disparità di forze. Ha ucciso oltre 50 soldati e appare ancora in grado di lanciare razzi verso il territorio israeliano. L’ex capo dell’intelligence militare israeliana Hayman Tamir ha esortato il governo ad intensificare la campagna militare e ad opporsi ad eventuali tregue.

Hamas si fa sentire anche in Cisgiordania. Ieri tre suoi militanti hanno compiuto un attacco armato a un checkpoint tra Betlemme e Gerusalemme, in cui sono rimasti feriti sei israeliani, uno dei quali è successivamente morto all’ospedale.

* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto[1]