by Michele Giorgio * | 25 Novembre 2023 10:29
Nessun nome di rilievo politico tra i palestinesi liberati. Ma il leader di Hamas Ismail Haniyeh è convinto di aver ottenuto una prima «vittoria»
GERUSALEMME. I Bakir hanno scelto di non parlare ai giornalisti. Sono rimasti chiusi in casa per tutto il giorno alla periferia nord di Gerusalemme, in attesa della conferma e, più di tutto, della realizzazione della notizia giunta loro tre giorni fa: la loro figlia maggiore Marah, 23 anni, faceva parte del primo gruppo dei 150 prigionieri palestinesi che Israele si è impegnato a scarcerare, ieri, in cambio della liberazione di un primo gruppo di 13 ostaggi nelle mani di Hamas a Gaza. «Occorre capirli. Qualcosa può andare storto all’ultimo momento e poi a Gerusalemme meno si parla e meno si appare e meglio è», diceva ieri mattina un uomo di mezz’età che si è descritto come un «amico» della famiglia Bakir. Si è riferito alle condizioni poste dalle autorità israeliane ai detenuti e alle loro famiglie: no a festeggiamenti e niente contatti con la stampa, altrimenti scatteranno pesanti sanzioni.
MARAH È IN PRIGIONE dal 2015, all’epoca aveva 15 anni. Fu arrestata e accusata di aver provato ad accoltellare un agente di polizia. L’autunno di quell’anno vide decine di giovani palestinesi, spesso ragazzini, uccisi o feriti in strada da poliziotti, soldati e civili armati per aver pugnalato, spesso solo tentato, degli israeliani. In particolare, alla Porta di Damasco della Città Vecchia di Gerusalemme e ai posti di blocco militari in Cisgiordania. Per i palestinesi quella era la reazione dei più giovani ai propositi dichiarati durante l’estate da estremisti israeliani di entrare sulla Spianata di Al Aqsa. Per Israele invece quell’ondata è stata «l’Intifada dei coltelli» e quei ragazzi erano solo dei «terroristi».
Marah non fu uccisa. I poliziotti fecero fuoco ferendola a un braccio e a una mano. La famiglia ha sempre negato che la ragazza fosse realmente intenzionata ad accoltellare l’agente di polizia. I giudici israeliani invece si dissero convinti della sua colpevolezza e, seppur minorenne, la condannarono a otto anni di prigione. «Sono stati otto anni duri» ci dice l’amico della famiglia «per un padre e una madre non è facile vedere la propria figlia, ancora una ragazzina, finire in prigione. In tutto questo tempo hanno potuto parlare con lei solo attraverso un vetro, durante i colloqui in carcere». L’uomo ci saluta frettolosamente. Aggiunge solo che Marah farà l’avvocata.
Le famiglie di altre 23 donne e di 15 adolescenti palestinesi, in prevalenza della Cisgiordania, hanno vissuto ieri le stesse ore di attesa. La notizia giunta del loro trasferimento alla prigione israeliana di Ofer, a Betunya (Ramallah), è stata accolta con felicità, perché segno evidente dello scambio ormai in atto con gli ostaggi israeliani a Gaza. In vari centri abitati cisgiordani sono stati organizzati festeggiamenti che poi, in parte, sono stati annullati nel timore di reazione delle forze armate israeliane.
Di fronte al carcere di Ofer l’esercito israeliano ha lanciato gas lacrimogeni alle famiglie in attesa e ai bus dei prigionieri; a Gerusalemme la polizia ha compiuto raid nelle case di alcuni di loro.
COSÌ LE CELEBRAZIONI palestinesi più ampie, quando è stato annunciato che i 39 prigionieri stavano tornando a casa, sono avvenute in internet. Per tutto il giorno sui social sono girati i nomi dei detenuti in attesa di liberazione, con biografie e fotografie. I siti e gli account vicini ad Hamas hanno descritto le scarcerazioni come una «vittoria» del movimento islamico perché Israele «è stato costretto a liberare prigioniere e prigionieri politici» contro la volontà inizialmente espressa dal governo Netanyahu.
Tra gli scarcerati però non figurano nomi di rilievo politico. Israele in modo categorico ha escluso di poter rimettere in libertà militanti riconosciuti di Hamas e detenuti che i suoi tribunali hanno condannato per attentati e uccisioni. L’unico nome relativamente noto è quello di Israa Jabees, di Gerusalemme. Degli adolescenti scarcerati ieri, cinque erano in prigione senza processo e altri cinque in attesa di giudizio per lancio di pietre o molotov, incendi dolosi e per tentati accoltellamenti di poliziotti. Nella lista dei 300 palestinesi che Israele si dice disposto a rimettere in libertà – se Hamas rilascerà altri 50 ostaggi in più ai 50 che lasceranno Gaza in questi giorni – 260 hanno meno di 20 anni e quattro meno di 14 anni.
Più parti ritengono che persino nel quadro di una ipotetica trattativa futura per il rilascio di tutti gli altri ostaggi israeliani a Gaza, inclusi i militari portati a Gaza assieme ai civili il 7 ottobre, il gabinetto di guerra guidato da Benyamin Netanyahu non accetterà di liberare Marwan Barghouti, il più noto e popolare dei prigionieri politici palestinesi. La strategia di Israele è continuare la guerra a Gaza per mettere alle strette il movimento islamico a liberare gli ostaggi a condizioni sempre più sfavorevoli.
IL LEADER politico Hamas, Ismail Haniyeh, al contrario è convinto che il suo movimento abbia ottenuto una prima «vittoria» costringendo Israele a scarcerare comunque un certo numero di prigionieri palestinesi.
* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto[1]
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