Terrore nella Striscia da Gaza a Rafah: «È una carneficina»

by Michele Giorgio * | 13 Ottobre 2023 12:01

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Finora 1.537 morti «ma sotto le macerie ce ne sono molti di più» Le voci degli intrappolati nell’inferno dell’enclave palestinese

 

GERUSALEMME. «La Striscia di Gaza non sarà più la stessa. Arriveremo a una situazione in cui coloro che guidano Gaza affronteranno gravi conseguenze». Herzi Halevi, capo di stato maggiore israeliano, ieri ha parlato per la prima volta da sabato scorso riconoscendo il fallimento delle Forze armate nel prevenire l’attacco di Hamas. Allo stesso tempo le sue parole non lasciano alcuno spazio alle interpretazioni sul presente e il futuro di Gaza. Israele vuole distruggere Hamas, rimuoverlo dal potere e, si ipotizza, rioccupare Gaza per qualche mese lasciando poi il suo controllo a una «autorità amica» (l’Anp?). Obiettivi che però potranno essere raggiunti solo attraverso la devastazione totale di quel piccolo pezzo di territorio palestinese. Il Times of Israel scriveva ieri che il governo Netanyahu ha informato l’Egitto che l’esercito israeliano si sta preparando a una campagna di terra contro Gaza che durerà mesi.

I NUMERI INTANTO raccontano parecchio di ciò che sta accadendo. Dal 7 ottobre Israele ha lanciato 3.600 attacchi aerei su Gaza, sganciando più di 6.000 bombe che hanno ucciso fino a ieri sera 1.537 palestinesi tra cui 500 bambini e ragazzi e 276 donne. Il numero dei morti è più che raddoppiato negli ultimi due giorni. I feriti sono oltre 6mila. Gli sfollati sono già 338mila e si riversano in massa nelle scuole dell’Unrwa (Onu). Le strutture sono stracolme, le condizioni di vita terribili e difficilmente potranno accogliere altri che scappano dalla morte. Ahmed Hijazi, un insegnante, le esplosioni di quelle migliaia di bombe dice averle sentite tutte. Ci parla con un filo di voce da Gaza.

«Sono molti di più i morti, tanti di più, è una carneficina. Sotto le macerie delle case e dei palazzi distrutti ci sono altri corpi e persone ancora vive che nessuno riesce a salvare. In questa situazione il rischio per i soccorritori di restare uccisi è alto», ci dice Aziz descrivendo scenari apocalittici a Gaza city, Jabaliya, Shate, Rafah, Khan Yunis, a nord e a sud della Striscia. «Sono state decimate tante famiglie – prosegue – le bombe cadono ovunque, in ogni momento. Adesso anche trovare l’acqua è un problema. Non riesco a pensare a domani, mi sembra già un miracolo che mia moglie, i bambini ed io siamo vivi in questo momento».

AL DOTTOR GHASSAN Abu Sitta, che raggiungiamo al telefono all’ospedale Shifa, il più grande di Gaza, più dell’acqua preoccupa la mancanza di carburante per i generatori autonomi. «Israele blocca i rifornimenti di gasolio. Quello che abbiamo ci basterà per pochi giorni. Quando sarà finito, l’ospedale resterà senza elettricità. Come cureremo i feriti, gli ammalati?» ci spiega ricordando che «una dozzina di suoi colleghi hanno perduto la vita nei raid aerei».

La mancanza di elettricità è un problema molto serio anche per i giornalisti di Gaza, i soli che trasmettono al mondo le immagini e le storie di morte e distruzione di questi giorni. «Cerchiamo di ricaricare appena possibile i telefoni cellulari e le attrezzature audio e video, ci affidiamo persino alle batterie delle auto per ricavare un po’ di energia», ci dice Aziz Kahlout, reporter di Jabaliya. «Più di tutto – aggiunge – ci preoccupa il crollo dei server di internet e degli impianti del gestore di telefonia mobile. Senza telefoni e internet non potremo più trasmettere le informazioni». Sono una decina i giornalisti, operatori e blogger di Gaza uccisi da sabato scorso.

I DRONI ISRAELIANI non sganciano solo bombe. Lanciano anche volantini con il messaggio, in arabo, che intima a centinaia di migliaia di civili di Beit Lahiya nel nord di Gaza a lasciare le case immediatamente e a dirigersi verso i rifugi. Quali rifugi? Gaza ne ha ben pochi e l’Unrwa ha comunicato che dieci di quelli sono stati colpiti dalle bombe. I volantini esortano ad aiutare l’esercito israeliano. Ciò, si legge nel testo, «ti impedirà di essere esposto al pericolo». Da parte loro le forze armate israeliane dicono di colpire solo obiettivi di Hamas e i suoi dirigenti, ma lasciano intendere che gli attacchi contro Gaza non sono più «chirurgici».

IL MOVIMENTO ISLAMICO messo sotto accusa dal mondo intero per l’assalto armato di sabato scorso in cui sono stati uccisi 1300 israeliani e rapiti almeno altri 130, ieri è tornato a parlare. A due voci. Da un lato Abu Obeida, il portavoce di Ezzedin al Qassam, l’ala armata, ha riferito in modo dettagliato le varie fasi e le motivazioni – la «difesa» della moschea Al Aqsa di Gerusalemme – per cui è stato concepito l’attacco. Dall’altro Saleh Aruri, il numero due dell’ufficio politico di Hamas, dopo aver anch’egli spiegato alla tv Al Jazeera l’attacco come una risposta alle «minacce israeliane ad Al Aqsa», ha provato a smentire o almeno ad attenuare le accuse di esecuzioni sommarie, brutalità, sevizie, uccisioni di bambini, poi bruciati e persino decapitati, che il premier israeliano Netanyahu e Israele in generale rivolgono alla sua organizzazione. Per Aruri la missione dei miliziani di Hamas era quella di attaccare solo le forze militari ma, aggiunge, «l’intervento di civili armati ha provocato il caos». Si riferisce alle migliaia di cittadini di Gaza che hanno seguito i miliziani dopo lo sfondamento delle recensioni di confine? Non è chiaro. Nell’intervista ha confermato che Hamas discuterà di uno scambio di ostaggi israeliani con i prigionieri palestinesi «solo al termine delle battaglie».

Sullo sfondo c’è l’Autorità nazionale palestinese, sempre più in bilico. «Rifiutiamo la pratica di uccidere civili o di maltrattarli da entrambe le parti in conflitto perché contravviene alla morale, alla religione e al diritto internazionale» ha detto ieri il presidente Abu Mazen che, giunto ad Amman con i vertici dell’Anp, ha incontrato re Abdallah e stamattina avrà un colloquio con il Segretario di stato Usa Blinken.

LE PROSSIME SARANNO ore di tensione. Hamas oggi chiama alla sollevazione in Cisgiordania e Gerusalemme Est in occasione delle preghiere islamiche del venerdì. La pressione militare israeliana però è stata intensificata e le principali città palestinesi, a cominciare da Ramallah e Betlemme, sono circondate, con i posti di blocco chiusi e migliaia di soldati a presidiarli ovunque in Cisgiordania dove negli incidenti avvenuti negli ultimi giorni sono stati uccisi 23 palestinesi, almeno due dei quali, padre e figlio, secondo fonti locali, sono stati colpiti da spari di coloni israeliani nel villaggio di Qusra. Ieri sera nei pressi della Porta di Damasco di Gerusalemme un uomo armato ha aperto il fuoco ferendo due poliziotti israeliani.

* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto[1]

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