by Chiara Cruciati * | 27 Ottobre 2023 9:02
Intervista a Munir Nuseibah, professore alla Al Quds University: «Finora Israele ha commesso crimini di guerra ma stavolta è diverso: privazione di acqua e cibo, dichiarazioni di vendetta, raid sui civili, stop agli aiuti…queste pratiche combinate mostrano intenzioni genocide»
GERUSALEMME. Munir Nuseibah è professore di diritto internazionale alla Al Quds University, di cui gestisce anche il Community Action Center. Lo incontriamo a Gerusalemme nei giorni successivi all’attacco israeliano alle Nazioni unite.
Assistiamo in diretta a un’operazione contro la popolazione civile di Gaza che più parti descrivono come crimine di guerra. Come va inquadrato l’attacco israeliano nell’ambito del diritto internazionale?
Quello in corso a Gaza è un genocidio. Come professore ed esperto di diritto internazionale non ho mai usato la parola genocidio per descrivere la situazione in Palestina e ho sempre avvertito chi lo faceva a non commettere questo errore. Finora contro i palestinesi Israele ha commesso crimini di guerra e contro l’umanità. Stavolta è diverso: assistiamo a una politica deliberata di privazione di acqua, cibo, elettricità e carburante, a rivendicazioni di vendetta da parte del governo israeliano, al bombardamento a tappeto di civili, al dilagare di malattie a causa dell’impossibilità di seppellire i morti e del collasso della sanità, allo stop all’ingresso di aiuti umanitari. Tutte queste pratiche combinate insieme mostrano un’intenzione genocida. Se l’esercito israeliano non verrà fermato, assisteremo a numeri ancora peggiori.
Alle uccisioni di migliaia di civili si aggiungono gli sfollati: oltre un milione su 2,2 milioni di popolazione totale.
Sono molto preoccupato. Dal 1948 i palestinesi hanno subito diverse esperienze di trasferimento forzato, più grandi e più piccole. Da quelle esperienze abbiamo imparato che quando un palestinese viene cacciato dalla propria casa non riuscirà mai a tornarci. Quello che sta avvenendo è nel migliore dei casi uno sfollamento di massa, nel peggiore un genocidio.
Vi aspettate interventi della Corte penale internazionale?
La Palestina cerca da anni di smuovere la Corte penale. Lo Stato di Palestina ha chiesto negli anni passati alla Cpi di dichiarare la propria giurisdizione sui Territori Occupati e nel 2015 ha aderito al Trattato di Roma. La giurisdizione della Corte è valida dal 13 giugno 2014. Da quel momento, insieme a numerose organizzazioni della società civile palestinese, ha presentato alla Cpi un’ingente documentazione per provare l’esistenza di crimini di guerra e contro l’umanità. Nel 2018 la Corte ha aperto un file in merito, arricchito di altra documentazione fornita dalla società civile palestinese, ong riconosciute a livello internazionale. L’allora procuratrice Bensouda disse che, secondo le indagini preliminari, si poteva parlare di crimini di guerra e contro l’umanità. Poi sono arrivate le sanzioni internazionali: l’allora presidente statunitense Trump ha sanzionato la Corte, i giudici e la procuratrice e alcuni paesi europei hanno minacciato di tagliare i fondi. Nel frattempo alla procura è arrivato Karim Khan che ha accettato i materiali delle ong palestinesi ma non ha mai agito. È in carica dal 2021, da allora Israele ha commesso svariati crimini tutti documentati, ma dalla Cpi solo silenzio.
In questi giorni molti sottolineano che la violazione palese del diritto internazionale avrà conseguenze molto
Il diritto internazionale non è astratto, è concreto. Ed è ben scritto, le leggi internazionali sono valide ma non sono applicate. Il problema è il modo in cui il diritto internazionale è gestito, non come è scritto: non lo gestisce la legge, ma la politica. Spesso a Ginevra mi capita di incontrare diplomatici europei che mi dicono di sapere cosa avviene in Palestina ma di non poter far avanzare le risoluzioni internazionali perché sono bloccati dai rispettivi governi. La comunità internazionale è in parte controllata dai paesi occidentali, dico in parte perché in molti casi il cosiddetto sud globale ha avuto modo di agire, penso al Sudafrica dell’apartheid. Ma sulla Palestina siamo fermi. A volte mi chiedo perché sprechiamo tanto tempo in questo lavoro di advocacy
Israele ha etichettato organizzazioni legali palestinesi, riconosciute a livello internazionale, come terroriste. Tale delegittimazione inficia sulla capacità di ottenere risultati?
La delegittimazione di organizzazioni come Al-Haq serve a delegittimare la richiesta palestinese di applicazione del diritto internazionale. Al-Haq si basa unicamente sugli standard previsti dalla legge internazionale, basta aprire il loro sito, leggere i rapporti e i comunicati ufficiali. Al-Haq ha un ufficio di consulenza all’Onu e fa lo stesso lavoro di Amnesty International e Human Rights Watch: chiede rimedi fondati solo su uno standard, i diritti umani fondamentali. Non presenta richieste basate su diritti di tipo storico, religioso, nazionale, ma solo sui diritti umani, applicabili in Mozambico come in Italia. Accusare al-Haq di terrorismo serve a Israele a farla chiudere.
Nel novembre 2022 Bezalel Smotrich, attuale ministro israeliano delle finanze, disse che la società civile palestinese rappresenta una minaccia esistenziale allo Stato di Israele. Sono d’accordo: la società civile palestinese sfida il regime di apartheid e lo fa adottando la stessa metodologia di Amnesty, Hrw, B’Tselem. Non più denunciare caso per caso, il singolo trasferimento forzato, la singola violenza dei coloni, la singola demolizione di case, ma inserire tutti questi casi in un quadro unico, come parte di un’unica politica strutturale. Non sono casi separati: la casa demolita a Gerusalemme, l’operazione militare su Gaza, lo sfollamento di comunità in Cisgiordania, il divieto di pregare ad al-Aqsa sono tutti atti di uno stesso regime di apartheid che ha come obiettivo la supremazia ebraica su tutto il territorio. Capisco benissimo Smotrich: ha ragione ad aver paura della società civile palestinese.
* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto[1]
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