Giudicare le azioni, non gli attori. Le punizioni collettive sono un crimine
Non esiste un «sì, però» ma la necessità di capire che il massacro di civili israeliani e palestinesi e l’ignoranza delle cause di fondo non porterà sicurezza e pace a nessuno
Da un lato, il numero più alto di civili ebrei assassinati dopo l’Olocausto. Dall’altro l’ennesima punizione collettiva ordinata contro la popolazione civile di Gaza. La storia si ripete, e si ripete in peggio. All’orizzonte non c’è ancora, come in passato, un tentativo di negoziato, una tregua in vista. C’è, al contrario, il rischio di un allargamento della guerra. Chi si occupa di diritti umani e vuole avere uno sguardo imparziale su quanto accade durante la guerra deve concentrarsi sulle azioni e non sugli attori. Chi guarda agli attori, troverà sempre una giustificazione per il comportamento del lato per cui parteggia.
Se invece guardiamo alle azioni, ci troviamo di fronte a crimini di diritto internazionale, per l’esattezza crimini di guerra, perpetrati da una parte e dall’altra. Non può esservi altra sensazione se non quella dell’orrore nel vedere le immagini dei miliziani palestinesi che atterrano coi parapendii a motore su un rave facendo un Bataclan moltiplicato per tre o per quattro.
NÉ VALE l’artificiosa distinzione tra «civili» e «civili anormali», fatta da un portavoce di Hamas, secondo cui gli israeliani e gli stranieri uccisi o presi in ostaggio sarebbero tutti «coloni armati», dunque bersagli legittimi. Tra questi ultimi, peraltro, c’erano e ci sono attivisti e pacifisti noti per la solidarietà espressa nei confronti dei palestinesi, così come bambini e lavoratori migranti.
L’espressione «civili anormali» è speculare a quella, usata dal ministro della Difesa israeliano il 9 ottobre, di «animali umani» contro i quali sarebbe di lì a poco partito l’attacco militare contro Gaza.
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Le azioni, dunque, sono crimini di guerra, senza se e senza ma. Quelle di Hamas e quelle dell’esercito israeliano. L’annuncio di sospendere forniture essenziali (elettricità, acqua, cibo, carburante) a Gaza rischia di condannare alla fame due milioni di persone, tra cui moltissimi bambini. Il diritto internazionale la chiama «punizione collettiva».
A Gaza, l’aviazione israeliana sbriciola edifici su edifici in pieno centro urbano. La popolazione è intrappolata e non ha alcun posto per mettersi al sicuro. Dicono: «La popolazione viene preavvisata per avere tempo di evacuarli». Siamo sicuri? I bambini, le persone anziane e quelle con disabilità riescono a fare in tempo? E, quando a causa della sospensione delle forniture di elettricità, i telefonini non potranno più essere caricati, come si potrà ricevere l’sms che avvisa dell’imminente bombardamento?
E, AMMESSO che l’sms arrivi e che il palazzo si evacui per tempo, dove andranno i residenti che non avranno più un alloggio? Resteranno parcheggiati per tempo immemore nell’ennesimo campo profughi, stavolta in Egitto, che non pare esattamente uno stato amico?
Le responsabilità di Hamas e Israele per quanto sta accadendo in questi giorni non devono farci ignorare le «cause di fondo»: il decennale controllo della potenza occupante, quale è Israele nei confronti di Gaza (e della Cisgiordania occupata, Gerusalemme est compresa) fatto di oppressione, uso ripetuto della forza letale, spossessamento, frammentazione, acquisizione illegale di terra, narrazione criminalizzante nei confronti dei palestinesi, inclusi i gruppi per i diritti umani; impunità per i coloni e per le forze armate. Le organizzazioni israeliane, palestinesi e internazionali che si occupano di diritti umani definiscono questo sistema con un nome, apartheid.
PARLO DI QUESTO solo alla fine dell’articolo, per ribadire che non c’è un «sì, però» da sollevare in questi giorni. C’è solo da condannare l’orrore, da pretendere il rispetto del diritto internazionale umanitario, da sollecitare la protezione dei civili su ogni lato del conflitto. Una cosa è chiara: il massacro di civili israeliani e palestinesi non porterà sicurezza e pace a nessuno.
*Portavoce di Amnesty International Italia
Fonte/autore: Riccardo Noury, il manifesto
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