L’Arabia Saudita manovra tra palestinesi e israeliani
L’Arabia saudita dopo aver alimentato una guerra che ha fatto decine di migliaia di morti, ora vuole una soluzione per lo Yemen. Ma il suo obiettivo principale è un accordo con gli Usa che includa la normalizzazione con Israele e una tutela minima dei diritti palestinesi
Riyadh parla a due voci. Dice ciò che vogliono ascoltare i suoi interlocutori israeliani e palestinesi, mentre si negoziano con la mediazione Usa le condizioni per la normalizzazione dei rapporti tra Arabia saudita e Stato ebraico. Quando ieri il ministro del turismo di Israele, Haim Katz, scendeva sorridente la scaletta dell’aereo che lo ha portato a Riyadh per una visita descritta come «storica», l’ambasciatore saudita non residente presso l’Autorità nazionale palestinese (Anp), Nayef al Sudairi, presentava a Ramallah le credenziali al ministro degli esteri Riad al Malki. Dopo la cerimonia ha dichiarato che il regno dei Saud «lavora per creare uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale». E ha affermato «che la causa palestinese, la Palestina e il popolo palestinese hanno uno status elevato e importante». Infine, ha sottolineato che «L’iniziativa araba presentata dall’Arabia Saudita nel 2002 (pace in cambio del ritiro di Israele dai territori arabi e palestinesi che ha occupato nel 1967, ndr), è un pilastro fondamentale di qualsiasi accordo futuro». Qualcosa di simile ha detto giorni fa all’Onu il ministro degli esteri Faisal bin Farhan Al-Saud. Invece l’erede al trono Mohammed bin Salman, di fatto già leader saudita, in un’intervista è stato più ambiguo sull’importanza per il suo paese delle aspirazioni palestinesi alla libertà e l’indipendenza.
Come stanno davvero le cose forse lo sanno solo i mediatori statunitensi. Tra gli analisti è diffusa la previsione che i sauditi, non appena otterranno il via libera di Israele al loro programma nucleare e il nuovo accordo di sicurezza con gli Usa, dimenticheranno subito lo «status elevato e importante» dei diritti palestinesi. Anche perché il premier israeliano Netanyahu, a capo di un governo di estrema destra, non potrà mai accogliere, ad esempio, lo stop alla colonizzazione ebraica della Cisgiordania chiesto dal leader dell’Anp, Abu Mazen, ai «fratelli» sauditi prima di fare la «pace» con Israele. E non bisogna credergli troppo quando Netanyahu afferma che comanda lui e che i suoi partner ultranazionalisti accetteranno le sue decisioni e le eventuali «concessioni» ai palestinesi pur di ottenere la normalizzazione con il più potente dei paesi arabi.
Riyadh intanto mette a posto il giardino di casa, per contenere problemi che potrebbero interferire con il maxi accordo in discussione con gli Usa e il sempre più vicino avvio di relazioni con Israele. Se otto anni fa Mohammed bin Salman ha messo in piedi una coalizione militare araba per combattere senza pietà in Yemen «il nemico Houthi», che aveva preso il potere a Sanaa, incurante delle migliaia di vittime civili che i bombardamenti aerei avrebbero fatto negli anni seguenti, oggi (si è ravveduto?) è pronto a raggiungere un compromesso proprio con quei nemici sciiti appoggiati dall’Iran, pur di mettere fine alla guerra.
Per i ribelli yemeniti è una vittoria netta, militare e diplomatica, che pochi mesi fa appariva impossibile. La monarchia Saud li ha ricevuti con grande riguardo a Riyadh e ha espresso soddisfazione per i «risultati positivi» dei colloqui – dal 14 al 18 settembre – con la mediazione dell’Oman. A margine degli incontri, la delegazione della milizia sciita ha avuto un colloquio anche con il ministro della Difesa saudita, Khaled bin Salman. Quest’ultimo ha ribadito la (presunta) posizione di Riyadh «a sostegno dello Yemen e del suo popolo» e la «costante volontà» del Regno di «incoraggiare le parti yemenite a sedere al tavolo delle trattative per giungere a una soluzione politica globale e durevole, sotto l’egida delle Nazioni Unite».
Gli Houthi, di fatto, sono stati trattati come gli unici rappresentanti dello Yemen e nei colloqui si è discusso di tutto: del pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici, dell’apertura dell’aeroporto e dei porti del paese e della liberazione di tutti i prigionieri. Sviluppi che hanno fatto irritare l’Alleanza nazionale che comprende 14 partiti dello Yemen e fa capo del governo riconosciuto internazionalmente. In una lettera che fa riferimento alla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu 2216, l’Alleanza chiede il disarmo totale della milizia Houthi. Ma la soluzione al conflitto la decide solo Mohammed bin Salman.
* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto
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