Bangladesh, chi protesta contro il governo finisce in carcere
Si vota nel 2024, l’opposizione vuole le dimissioni della prima ministra Sheikh Hasina
A pochi mesi dalle elezioni politiche del gennaio 2024, in Bangladesh crescono tensione e violenza. Sono ancora in carcere alcuni dei manifestanti arrestati lo scorso weekend, quando il principale partito di opposizione, il Bangladesh Nationalist Party (Bnp), ha organizzato l’ultima di una lunga serie di proteste. Con una richiesta: le dimissioni del governo guidato dalla prima ministra Sheikh Hasina, a capo della Lega Awami e al governo dal 2009, e la nascita di un governo neutrale e provvisorio per condurre elezioni libere e trasparenti all’inizio del 2024. Quando, dopo decenni di forte antagonismo contrassegnato da violenze, arresti, accuse reciproche di brogli, i due principali partiti sorti dopo l’indipendenza nel 1971 torneranno a contendersi la guida del Paese.
PER L’OPPOSIZIONE del Bnp, che ha anche minacciato di disertare il processo elettorale, le elezioni non possono essere libere sotto il regime di Sheikh Hasina. Accusata di reprimere il dissenso, censurare i media, usare la violenza contro gli oppositori. Da qui, da alcuni mesi, una serie ininterrotta di manifestazioni. Quelle tenute venerdì e sabato a Dacca, la capitale, sono state partecipate da decine di migliaia di manifestanti e hanno registrato pesanti scontri con le forze di polizia, che hanno usato proiettili di gomma, gas lacrimogeni, sfollagente e condotto arresti di massa. Secondo Faruk Hossain, uno dei portavoce della polizia di Dacca, gli agenti hanno impedito la violenza dei manifestanti. Per la Lega Awami, è l’opposizione ad aver orchestrato le violenze di strada. Per Abdul Moyeen Khan, un alto dirigente del Bnp, la reazione della polizia «ha solo confermato la natura autocratica del regime al potere».
IERI SONO ARRIVATE le richieste di spiegazione da parte di Washington, che negli ultimi due anni ha inasprito i rapporti con Dacca, pur evitando strappi radicali che rischierebbero di portare il Paese ancor di più nell’orbita di Pechino. Matthew Miller, portavoce del dipartimento di Stato Usa, ha chiesto «al governo del Bangladesh di indagare sulle denunce di violenza in modo approfondito. Per Miller, elezioni libere e trasparenti «non possono svolgersi in un contesto di violenza politica». I precedenti non fanno ben sperare. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, le ultime due elezioni nazionali, nel 2014 e nel 2018, sono state segnate da brogli, violenza, intimidazioni. Elementi costanti anche quando al governo c’era il Bnp, notano gli osservatori.
TRA QUELLI ESTERNI, gli europei sono preoccupati. Dall’8 al 22 luglio, un team di osservatori dell’Unione europea ha visitato il Paese per valutare il clima politico. Il 17 luglio, un candidato indipendente nel collegio di Dacca, Ashraful Alom detto Hero Alom, ha subito una violenta aggressione in strada da parte di militanti della Lega Awami. Ne è seguita una dichiarazione congiunta di condanna da parte di 13 rappresentanze diplomatiche straniere, inclusa quella italiana. Respinta al mittente come un’intromissione dal ministro degli esteri, Shahriar Alam. Rimangono in vigore invece le sanzioni decise da Washington. Che nel 2021 ha sanzionato gli abusi del Rapid Action Battalion, la famigerata forza paramilitare bangladese. E nel maggio di quest’anno ha adottato una nuova politica, seconda la quale potrà «limitare il rilascio di visti a qualsiasi individuo del Bangladesh ritenuto responsabile o complice di aver minato il processo elettorale democratico». Ieri l’ambasciatore Usa a Dacca, Peter Haas, ha annunciato che all’inizio di ottobre arriverà nel Paese un team statunitense di monitoraggio pre-elettorale. Un boccone amaro per Sheikh Hasina, che il 25 luglio ha incontrato a Roma la presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
* Fonte/autore: Giuliano Battiston, il manifesto
ph by DelwarHossain, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons
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