Messico. Tra narcos, gringos e desaparecidos, le speranze di rivoluzione

by Luciana Castellina * | 5 Luglio 2023 8:59

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«Mais Rosso» di Francesco Forgione, edizioni Zolfo. Un’indagine serrata sul Paese che vanta il triste primato di 60mila scomparsi

 

Solo qualche giorno fa, il 23 di giugno, El Pais Mexico ha dato notizia che anche gli ultimi due componenti del Giei (il gruppo indipendente di investigatori esperti) che dal 2015 ha seguito per conto della Cidh (Commissione interamericana per i diritti umani) il caso dei 43 studenti di Ayotzinapa desaparecidos nel 2014, abbandonano definitivamente il Messico. Da allora alle prese con la segreteria della Difesa che ha opposto mille ostacoli alla loro ricerca, la attuale rottura è stata accelerata dal suo rifiuto, confermato durante tutto un anno di richieste, di consegnare 80-90 documenti da loro rintracciati che provano la connivenza dell’apparato militare con la rete dei potenti narcos che a suo tempo fecero scomparire quei ragazzi.

NONOSTANTE l’attuale presidente del Messico, Obrador, che anche su questo caso specifico aveva preso posizioni aperte che sembravano indicare una svolta politica seria, la forza della criminalità collusa con lo stato che domina il paese è riuscita a bloccare anche lui. Il clamoroso abbandono del Giei ne è una drammatica testimonianza.
Parlo di questo sebbene stia scrivendo una recensione destinata alle pagine culturali, perché il libro che sono qui a raccomandarvi, Mais Rosso di Francesco Forgione (Ed.Zolfo, pp, 208, euro 17) parla proprio di quel che succede in questo bellissimo paese che, con 60mila persone scomparse ha il primato mondiale di questi delitti, qui voluti e coperti da una rete potentissima fra politici al governo, cartelli del narcotraffico, forze armate statali, procura generale. E, naturalmente, i businessmen del nord, che hanno trasformato il paesaggio del paese: non più i prati gialli di mais, ma rossi per via dei papaveri.

Ne scrivo con emozione perché il caso vuole che io stessa sia stata testimone della vicenda di Ayotzinapa: ero a Città del Messico, non in gita, ma come membro della «corte» incaricata di emettere la sentenza del Tribunale permanente dei Popoli, la straordinaria istituzione creata da Bertrand Russell ai tempi del Vietnam, poi ereditata dalla Fondazione Basso (che da allora ha promosso ben 54 processi). Eravamo lì proprio per indagare sul rispetto dei diritti dei popoli in Messico e la nostra ultima udienza, il 15 novembre 2014, in un teatro della Unam (Università nazionale autonoma del Messico), ha coinciso con l’annuncio della sparizione dei 43 studenti. Agli atti, quella nostra ultima seduta porta il titolo All’ombra di Ayotzinapa. Ricordo bene quel che accadde, perché nonostante tutto i messicani protestarono, e la famosa piazza del Palazzo del Governo, quello con gli stupendi affreschi di Diego Rivera, quel giorno si affollò di popolo. I manifestanti bloccarono il traffico a lungo fino a renderci difficile, nei giorni seguenti, raggiungere l’aeroporto.

FORGIONE PARLA dell’oggi, dell’ultima delle sue tante missioni durante la quale decide di correre il rischio di un solitario incontro con Guglielmo, el carnacito, lo squartatore, reclutato dai narcos quando aveva 14 anni, l’età del suo primo omicidio. Si trovano in un paese sperduto della Montagna del Guerrero, a poca distanza da Acapulco, il paese-guida del narcotraffico. Chi racconta è ancora quasi un ragazzo che ha ora scontato la pena, solo 7 anni però, nonostante il gran numero di omicidi compiuti, perché questo è il limite prescritto dalla legge messicana per chi è stato arruolato dal crimine ancora minorenne. La sua è una storia personale ma comune a quella di tanti figli di Acapulco, che meglio di qualsiasi testo storico racconta il Messico. Un racconto tristissimo.

Ma l’importanza di questo libro sta nel fatto che l’emozione che questa vicenda induce è accompagnata da una attenta descrizione del contesto in cui si svolge. L’autore non è infatti, rispetto al Messico e a questa problematica, uno qualsiasi. È stato presidente della commissione antimafia della Camera dei deputati, ha scritto molti altri libri sull’argomento e per circa vent’anni ha insegnato la materia all’università di Città del Messico; ed è stato anche componente di molte missioni dell’Onu, chiamato per via delle sue conoscenze delle mafie globalizzate. Lui oltretutto è calabrese, esperto dunque «per nascita» della ’ndrangheta, e anche della mafia, per esser stato 30 anni in Sicilia, dove ha diretto tutto quanto è dirigibile nella sinistra dell’isola. Secondo lui la mafia è un po’ invecchiata, la ’ndrangheta, invece, è ormai ben più moderna. (Sulla competizione fra le due, Francesco ha messo in scena una pièce teatrale – un ironico battibecco fra un siciliano e un calabrese, da lui stesso interpretato – recitata sul palcoscenico del teatro Vittoria del Testaccio, affollato dall’élite della magistratura entusiasta).

CHI CONOSCE me e Francesco Forgione, attualmente diventato nientemeno che sindaco di Favignana, penserà che il mio entusiasmo per questo libro dipenda dal fatto che siamo amici stretti da decenni: non solo perché lui viene dal manifesto-pdup, ma perché poi abbiamo lavorato gomito a gomito, io direttrice e lui redattore capo, a Liberazione quando era settimanale. Sono esperienze che temprano. E certo è vero che di un suo libro non avrei mai parlato male. Su questa sua ultima opera sono però pienamente sincera quando vi consiglio con la massima convinzione, di leggerla. Anche perché, nonostante tutto, è un libro ottimista. E, infatti, finisce con una speranza non infondata: che proprio dagli Indios del Guerrero ripartirà la rivoluzione, come è stato per il Chapas, e ci racconta come ce ne siano già ora le premesse.

C’è, soprattutto, una specificità messicana curiosa ma positiva da non sottovalutare: nonostante la sua attuale drammatica realtà, in questo paese è rimasta intatta l’iconografia della rivoluzione che nel 1910 pose fine – ma solo nel ’17 – alla dittatura di Porfirio Diaz. I nomi di tutte le strade e di tutti i locali e dei monumenti la evocano nonostante la brutale aggressione della cultura gringa. Sono rimasti intatti anche i nomi di tutte le istituzioni, persino – sia pure con una aggiuntina fatale – il nome del più potente partito, il Pri, «Partito rivoluzionario istituzionale».

E comunque: meglio ricorrere, per definirsi, alla parola rivoluzione, sebbene non corrisponda più alla realtà, che scegliere la parola «conservatore». (La memoria lascia sempre una traccia che prima o dopo si può ritrovare).

* Fonte/autore: Luciana Castellina, il manifesto[1]

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