L’eterogenesi dei fini della giustizia riparativa
Se la pena reclusiva in precedenza era “semplice” contenimento (e umiliazione) dei corpi dei colpevoli di reati, ora, con la “riforma Cartabia”, si aggiunge un’intrusione nella loro anima, estesa persino agli imputati
A detta dei suoi propugnatori, la giustizia cosiddetta riparativa – mal tradotta dall’anglosassone Restorative justice – «è una modalità alternativa di risoluzione dei conflitti, ma alternativa non nel senso di sostitutiva», «non intende sovrapporsi alla legge; non intende sostituirsi alle sentenze dei giudici, e tantomeno intende contestarle» (Niccolò Nisivoccia, “il manifesto”, 7 luglio 2023).
Una puntualizzazione più che necessaria, date le ambiguità e le convinzioni diffuse che la equivocano in effetti come misura alternativa o, addirittura, la confondono con la giustizia di transizione. Tanto più che, divenuta essa stessa legge organica all’interno del diritto penale, non ne costituisce evidentemente una fuoriuscita, divenendo piuttosto un’articolazione complementare e persino supplementare del modello retributivo. Non risponde, insomma, a quell’esortazione a «pensare ad alternative alla pena, non solo a pene alternative» venuta dal cardinal Martini, cui pure si ispirano i più autorevoli padri della nuova legge e, in generale, della filosofia riparativa.
È facile attendersi che, nell’applicazione concreta, le norme relative diverranno semmai uno scalino (o “scalone”) in più nel già infinito e scivoloso percorso trattamentale ai fini dell’auspicato “recupero” e reinserimento del reo. Se la pena reclusiva in precedenza era “semplice” contenimento e umiliazione dei corpi dei colpevoli di reati, ora vi si aggiunge un’intrusione nella loro anima, che viene indagata al fine di redimerla e “riscattarla”: parola ambivalente che ben rende la paradossale continuità e contiguità tra giustizia retributiva e paradigma riparativo, in un percorso equivoco poiché ha al termine la promessa di riduzione della pena che una sorta di tribunale delle coscienze potrà discrezionalmente disporre.
A questa nuova forma di pena saranno peraltro sottoposti, o sottoponibili, non solo i colpevoli di reato, ma anche i semplici indagati o imputati (Decreto Legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, al Titolo IV – Disciplina organica della giustizia riparativa, art. 42.1.c), col rischio che tale percorso possa essere utilizzato impropriamente e surrettiziamente a fini di confessione e collaborazione con gli inquirenti, dato che il “Dovere di riservatezza”, la “Inutilizzabilità” e la “Tutela del segreto” (artt. 50, 51, 52) consentono eccezioni.
La nuova normativa influirà negativamente anche rispetto agli attuali benefici. Il testo di legge è ambiguo ed esplicito al tempo stesso laddove stabilisce contraddittoriamente che: «La partecipazione al programma di giustizia riparativa e l’eventuale esito riparativo sono valutati ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, nonché della liberazione condizionale». Salvo dire subito dopo che: «Non si tiene conto in ogni caso della mancata effettuazione del programma, dell’interruzione dello stesso o del mancato raggiungimento di un esito riparativo» (Titolo V, art. 78 c.2.
Pur necessitando di una trattazione ben più ampia, si può allora convenire che la traduzione in legge dei principi di giustizia riparativa all’interno della “riforma Cartabia”, origina da molte buone intenzioni. Non di meno, si può essere certi che la sua applicazione comporti ancor più numerosi rischi e pericoli per i diritti dei reclusi e per una pena costituzionalmente orientata per il futuro, ma come già in precedenza, con l’art. 20 ter, cosiddetto “Lavoro di pubblica utilità sostitutivo”, che consente allo Stato e ai privati di utilizzare manodopera detenuta senza corrispondere alcuna remunerazione e contribuzione. Una norma che, richiamandosi pur impropriamente al modello riparativo, ha comportato un «ritorno del lavoro forzato gratuito» che costituisce un «nuovo paradigma emendativo-riparativo di giustizia: basato sull’idea che il condannato, già privato della libertà personale, debba anche “riscattarsi” agli occhi del pubblico per la violazione della legge penale», secondo Giuseppe Caputo, ricercatore dell’Università di Firenze (“L’altro diritto”, n. 6/2022).
Un lavoro forzato gratuito ma, naturalmente, dichiarato “volontario”. Il che ci dovrebbe far capire come, nella pratica, potrà tradursi per un detenuto quel «consenso libero, consapevole, informato ed espresso in forma scritta» ora previsto dalla riforma Cartabia per accedere al programma riparativo, imperniato sulla centralità e attiva partecipazione della vittima. Programma al cui termine il giudice potrà concedere una diminuzione della pena.
Infine, ma non per ultimo. La nuova legge ignora completamente l’esistenza di reati senza vittima. Eppure, le leggi sulle droghe e sull’immigrazione sono quelle che maggiormente riempiono le celle. Che “esito riparativo” andrebbe richiesto ai condannati (per non dire agli imputati!) per quel tipo di reati? E quali le loro parti offese da far partecipare al programma e cui dare il potere, pur indiretto e mediato, di incidere sulla durata della pena?
In definitiva, vien da dire che mai come in questo caso si è in presenza di una eterogenesi dei fini, laddove l’intenzione di ridurre il peso oppressivo della pena reclusiva attraverso una “giustizia dell’incontro” e di “prossimità” è stata invece, a tutti gli effetti, inscritta in un complesso di ampliamento della risposta penale. Nei decenni scorsi si è passati dallo Stato sociale a uno “Stato penale”. Ora si sta affacciando un surrogato di “Stato etico”.
* di Sergio Segio – Una versione più sintetica di questo articolo è stata pubblicata sul quotidiano “il manifesto” del 12 luglio.
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