Francia. Tribunali come fabbriche per processare i rivoltosi
Nanterre, fino a 30 processi in un giorno: garanzie ridotte e zero mediazione. È la «politica attuale» della magistratura francese. Il ministro Dupond-Moretti: una giustizia «rapida, severa e sistematica»
NANTERRE. Il padre del ragazzo alla sbarra sbotta in piena udienza, squarciando con l’insulto il silenzio dell’aula 2 del tribunale di Nanterre: «Selim, sti cazzi, je les emmerde!». Il processo per direttissima è in corso nella città dove martedì scorso un poliziotto ha ucciso Nahel. La sua morte ha incendiato la Francia: 1.300 gli arresti per i cinque giorni di rivolta. Ieri Nanterre ha ospitato i funerali del 17enne.
IL PAPÀ DI SELIM si alza in piedi mentre un poliziotto gli intima di uscire dall’aula. Sua moglie raccoglie la borsetta e lo segue. «Qua si condannano dei gosses (ragazzini) senza prove», dice ad alta voce all’indirizzo del presidente del tribunale. Selim, vent’anni appena compiuti, si era seduto nel box degli imputati poco prima. Molto poco prima: in appena due ore, il tribunale di Nanterre è passato dal dibattimento alla sentenza, arringhe di accusa e difesa comprese. È il meccanismo della comparution immédiate, un regime particolare che permette alla procura di processare l’arrestato in flagranza al termine della detenzione preventiva. Nel giro di 48 ore si passa dal commissariato al tribunale.
«È una fabbrica», riassume un avvocato, ondeggiando nella toga. Un’industria che opera a ciclo continuo dall’inizio della rivolta delle periferie francesi, persino oggi che è sabato. «Da tre giorni andiamo avanti fino a dopo mezzanotte, giudicando decine e decine di casi al giorno, ieri ne abbiamo fatti 30», dice. Praticamente tutti i giudicati sono giovani arrestati durante la rivolta di questi giorni.
COME SELIM, per l’appunto. Arrestato giovedì scorso, dopo la manifestazione di solidarietà alla famiglia del giovane Nahel, è stato portato in commissariato. I poliziotti che l’hanno fermato lo hanno accusato di «violenze su pubblico ufficiale». Durante il fermo gli hanno chiesto il telefono e il codice per sbloccarlo, senza precisare che aveva il diritto di rifiutarsi. Da lì l’inizio del calvario.
DENTRO IL BOX a destra della sala, Selim si alza in piedi per rispondere al giudice. Alto più della media, deve chinarsi per raggiungere il microfono. Con le mani dietro la schiena e la voce ferma, conferma la biografia che il giudice traccia all’inizio di ogni udienza: studi, fedina penale, lavoro, interessi, impegno associativo. Selim è in triennale in un’università parigina, lavora come animatore in un centro per l’infanzia, non ha precedenti.
Secondo il verbale di polizia, Selim avrebbe lanciato dei sassi con l’aggravante di aver nascosto il proprio viso. Le prove: il «riconoscimento formale» degli agenti sul posto. Cioè, la parola dei poliziotti. Unico altro elemento del dossier sono i messaggi su Snapchat inviati da Selim ad amici vari, nei quali avrebbe detto di aver lanciato degli oggetti e incitato alla rivolta. «Sono solo parole», dice l’interessato.
IL GIUDICE fa un gesto con la mano, si passa a un altro caso: la fabbrica funziona così, si esaminano quattro o cinque casi per volta, e poi si rendono le sentenze tutte assieme, a grappolo.
«Tutto questo non è normale», dice Shanna Benhamou, giovane avvocatessa che difende una ragazza di 21 anni, colpevole di aver lanciato una lattina addosso a un poliziotto. Secondo Benhamou, che aspetta pazientemente il turno della propria cliente, il problema principale per questi ragazzi è di evitare di macchiarsi la fedina penale, la cui pulizia è necessaria per trovare lavoro in tutta una serie di settori (per esempio l’educazione pubblica). «La mia cliente riconosce i fatti. È incensurata. Di solito in questi casi si negozia con la procura, ma oggi mi hanno detto che non è la ‘politica attuale’ del tribunale».
IN UNA CIRCOLARE emanata venerdì, il ministro della giustizia Éric Dupond-Moretti ha invitato i tribunali a esercitare una giustizia «rapida, severa e sistematica», calcando la mano in particolare su reati associativi e violenze contro le forze dell’ordine.
Il rullino all’ingresso dell’aula testimonia di questa politica. Uno dopo l’altro, sono indicati nomi e cognomi, ragioni dell’arresto, luogo e circostanze. Nel giro di due ore almeno cinque persone hanno deposto davanti al giudice, mentre le famiglie seguono, apprensive, dagli scranni del pubblico.
POI ARRIVA il turno di Selim: «colpevole», dice il giudice, sei mesi di carcere mutati in altrettanto tempo ai domiciliari col braccialetto elettronico. È qui che il padre sbotta, scende le scale e si accende una sigaretta. «Danno pene a caso! – dice – Cosa credono, che non lo sappiamo che devono macinare le cifre? Non è così che si calmano i giovani».
Dice che Selim è uno bravo, che così gli sporcano la fedina e addio al lavoro al centro di animazione. Non riesce a stare fermo, le sigarette si succedono una dopo l’altra. Poi arriva suo figlio, grande e grosso, con la voce che gli trema dalla rabbia. Il padre lo bacia, gli dice di non preoccuparsi. È uno di quei «padri di famiglia» ai quali Macron, venerdì, aveva chiesto di «prendersi le proprie responsabilità», come se la rivolta fosse colpa loro.
* Fonte/autore: Filippo Ortona, il manifesto
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