Egitto. «Gli operai resistono a mani nude al neoliberismo militarizzato»
Il 3 luglio 2013 il generale al-Sisi saliva al potere. Sindacati, partiti, unioni studentesche: le realtà protagoniste di piazza Tahrir sono state smantellate. Intervista al giornalista Hossam El Hamalawi: «L’esercito è la sola classe dirigente, ha stravolto lo spazio pubblico ed economico. Le ribellioni operaie dal 2006 hanno creato una rete sindacale ufficiosa, oggi l’azione dei lavoratori è disarmata»
In principio furono Sadat e la rivolta del pane, poi Mubarak e piazza Tahrir. Ora, a tessere le fila del neoliberismo autoritario egiziano è Abdel Fattah al-Sisi, ex generale, ex ministro della Difesa, golpista. E presidente dal 2014. Il potere lo prese il 3 luglio 2013, deponendo il legittimo presidente Mohammed Morsi, a seguito di proteste popolari contro il governo molto poco democratico dei Fratelli musulmani.
In dieci anni, il regime egiziano ha stravolto il volto del paese. Tra i suoi elementi centrali sta la visione economica, un mix di neoliberismo e militarismo che ha portato un terzo degli egiziani sotto la soglia di povertà e un altro terzo poco sopra. Ne parliamo con Hossam El Hamalawi, giornalista, attivista socialista, ex prigioniero politico sotto Mubarak.
Partiamo da lontano, dalle radici del neoliberismo egiziano che ha posto le basi della politica economica di al-Sisi.
L’Egitto di Sadat e il Cile di Pinochet sono stati i pionieri del neoliberismo nel sud globale. La nostra transizione neoliberista comincia nel 1974. Dopo la guerra del ’73, Sadat provò a riavvicinarsi all’occidente, agli Stati uniti, e a indirizzare l’economia lontano dal capitalismo di stato eretto da Nasser. Nel 1977 scoppiò una rivolta a causa dei decreti di Sadat che cancellavano i sussidi su beni di prima necessità come il pane. Due giorni di rivolta nazionale, il 18 e il 19 gennaio 1977, congelarono la transizione neoliberista per almeno un decennio. Fu l’inizio della fine di Sadat. Dopo il suo assassinio nel 1981, gli successe Mubarak che all’inizio aveva paura a realizzare riforme neoliberiste, quella rivolta aveva provocato un trauma nella classe dirigente. Alla fine trovò il coraggio di riprendere il massacro del welfare sociale. Era il 1991. La data non è una coincidenza: quello fu l’anno in cui Mubarak iniziò la sua «guerra al terrore».
Generalmente le guerre al terrore vanno a braccetto con il neoliberismo perché si servono a vicenda: da un lato, le élite neoliberiste ritengono che lo stato debba abbandonare la sfera sociale e le attività economiche per focalizzarsi solo su «legge e ordine», ovvero spostare le risorse nazionali verso la polizia; dall’altro lato, lo smantellamento del welfare porta inevitabilmente a una reazione perché le persone percepiscono l’attacco ai propri diritti sociali e iniziano a resistere. Forse non subito, ma succede. Come lo gestisci? Dichiarando una guerra al terrore che apparentemente prende di mira una minaccia percepita, che sia reale o meno, militarizzi la polizia e devasti il dissenso in ogni sua forma. È quando accaduto in Egitto negli anni Novanta: il governo ha dichiarato guerra alla Jihad islamica e al Gamaa Islamiya. Quella guerra è continuata fino al 2011 anche se la minaccia terroristica non esisteva almeno da dieci anni. Ma serviva al regime per militarizzare la polizia, invadere lo spazio pubblico, vietare gli scioperi.
La transizione neoliberista degli anni Novanta ha poi modificato la struttura dell’élite egiziana: ha dato forza a imprenditori neoliberisti riuniti intorno a Gamal Mubarak, il figlio del presidente e suo delfino. I sodali di Gamal erano ai vertici del National Democratic Party e avevano posti ministeriali. Allo stesso tempo a emergere come attore economico fu l’esercito. Gli ufficiali non erano solo beneficiari delle riforme neoliberiste, ne erano gli architetti, presenti in ogni istituzione, finanza, investimenti, produzione, settore dei servizi. Alla vigilia della rivoluzione del 2011 l’esercito aveva i suoi tentacoli ovunque, dai saloni per i matrimoni alle pasticcerie, dal turismo ai trasporti.
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Com’è cambiato il sistema economica dopo il golpe del 2013?
La classe dirigente che ha gestito la controrivoluzione ha creato un nuovo ordine per evitare gli errori del passato. L’errore, a suo avviso, non era stata l’eccessiva repressione, ma il fatto che il vecchio regime fosse stato troppo morbido, provocando una rivoluzione. Si doveva dunque aumentare il livello della repressione. Dal golpe è uscito un regime nuovo in cui l’esercito è diventato di fatto la classe dirigente. La vecchia élite economica neoliberale di Gamal Mubarak è stata marginalizzata e ha perso potere politico ed economico perché la nuova classe dirigente militare ha operato secondo una formula tossica: potrebbe sembrare il classico contesto neoliberale, ma in realtà le imprese pubbliche privatizzate sono state poi vendute a compagnie dell’esercito. L’esercito è diventato uno stato indipendente, uno stato nello stato. Le élite neoliberali non possono competere con l’esercito, che è esentato dalle tasse e gode di una rete di connessioni totale. Quindi è vero che abbiamo politiche di austerity. I prezzi salgono, la sterlina si svaluta (dieci anni fa un dollaro valeva sette sterline, oggi 30). Ma da questa situazione non guadagna il settore privato. Guadagna l’esercito e le compagnie legate alle forze armate. È un regime neoliberista militarizzato.
Simbolo del noeliberismo di al-Sisi sono i mega progetti infrastrutturali che drenano risorse impoverendo la popolazione e producono una pericolosa gentrificazione e l’espulsione delle classi povere dalle città.
Al-Sisi è ossessionato dai mega progetti. Sicuramente per megalomania, come ogni dittatore. Ma non è abbastanza per spiegare le demolizioni di massa, i progetti infrastrutturali, la nuova capitale. Le ragioni sono due. Primo, i mega progetti sono una locomotiva per l’economia dei militari: seppur finanziati da capitale locale e internazionale, sono realizzati con la supervisione e la partnership dell’esercito. Lo fa un’agenzia, l’Autorità ingegneristica delle forze armate, branca dell’esercito che si occupa di gestire gli investimenti, miliardi di dollari, che al-Sisi ha ottenuto i primi anni di regime dall’Occidente e dal Golfo. Pensava che quel flusso di denaro non si sarebbe mai prosciugato perché l’Egitto è too big to fail. Ora però ha un debito enorme, il più grande della nostra storia, 120 miliardi di dollari.
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La seconda ragione dei mega progetti è l’approccio militaristico alla vita pubblica, compresa la pianificazione urbana. Non trattano il Cairo e altre città come centri urbani, ma come campi militari e di sorveglianza, da salvaguardare da proteste e rivoluzioni. Per questo costruiscono una capitale nel mezzo del deserto dove scioperi e manifestazioni non riusciranno mai a vivere, demoliscono i quartieri poveri e trasferiscono gli abitanti per far spazio a superstrade che colleghino le classi alte ai centri città. Ed è per questo che le nuove strade sono abbastanza larghe da farci passare un carro armato.
Negli ultimi mesi si assiste però a scioperi nelle fabbriche del paese. Una situazione simile a quella del decennio che precedette Tahrir? È una forma di dissenso che potrebbe sfociare in una rivolta?
Gli scioperi in corso, seppur in aumento, non sono paragonabili a quelli pre-2011. Il motivo è di nuovo nella repressione: al-Sisi, dopo il golpe, è stato ossessionato dalla distruzione della società civile egiziana, nel senso gramsciano del termine, non tanto dalle ong, ma dai partiti politici, i gruppi giovanili, le reti di comunità, i sindacati indipendenti, le unioni degli studenti. Tutta questa società civile è stata demolita, completamente smantellata. I lavoratori prima del 2011, scioperando, hanno creato una rete ufficiosa che esiste ancora oggi. Sul piano ufficiale opera la Federazione generale egiziana dei sindacati, creata nel 1957 sotto Nasser e che aveva nazionalizzato i sindacati. Una struttura simile a quella che c’era in Unione sovietica, con burocrati appuntati dallo stato ma chiamati «sindacalisti» che non organizzavano mai scioperi né mobilitavano la classe operaia. Implementavano invece le politiche statali nei luoghi di lavoro.
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Con l’inizio delle ribellioni operaie a partire dal dicembre 2006, i lavoratori hanno creato una rete ufficiosa, con diversi leader sindacali che si incontravano, coordinavano le azioni, si tenevano informati. Nacquero i primi sindacati indipendenti, esplosi nei numeri dopo il 2011. Con il golpe, sono stati smantellati. Al-Sisi ha emanato la legislazione anti-scioperi e posto restrizioni legali ai sindacati indipendenti. Sono morti. Quindi l’azione oggi in Egitto è disarmata: i lavoratori combattono a mani nude. Non hanno sindacati, partiti di sinistra, associazioni ufficiose. Senza una forza organizzata, i lavoratori non avranno un impatto sul regime come successo con Tahrir.
* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto
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