A due chilometri di distanza, nel quartiere benestante di Nisantası, sembrava una domenica pomeriggio qualunque, fino alle tre in punto: una folla di qualche centinaio di persone si è improvvisamente radunata a Mıstık Parkı.

«SCAPPA SCAPPA scappa Tayyip, le frocie stanno arrivando!», scandivano a gran voce l* attivist*, «Sì, distruggeremo lo stato transfobico!», mentre dall’alto di un parcheggio veniva srotolata un’enorme bandiera arcobaleno.

Dietro a uno striscione con lo slogan «Non ce ne andiamo – Stiamo tornando – Torneremo ancora!», l* attivist* hanno letto il comunicato stampa e poi marciato in corteo verso il quartiere di Besiktas sventolando una grande bandiera arcobaleno, per poi disperdersi rapidamente prima dell’arrivo della polizia.

La repressione del movimento Lgbtq+ in Turchia si è inasprita negli ultimi anni, anche per l’ampia portata delle rivendicazioni che si intersecano con altre lotte: dalla questione identitaria curda e armena ai diritti di lavoratori, migranti e rifugiati.

A partire dalla prima settimana dell’orgoglio, tenuta a Istanbul nel 1993, il movimento Lgbtq+ ha preso sempre più slancio negli anni 2000, paradossalmente proprio durante i primi mandati di Erdogan, nell’ambito del processo di adesione all’Ue.

LA MARCIA del Pride, che si è svolta per la prima volta nel 2003 in piazza Taksim con la partecipazione di una cinquantina di attivisti, è cresciuto fino a diventare la più grande in un paese a maggioranza musulmana.

Il blocco Lgbtq+ era in prima linea nelle proteste antigovernative di Gezi del giugno 2013, dove ha acquisito ulteriore visibilità, tanto che nel Pride di quell’anno scesero in piazza 100mila persone.

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Il cambio di rotta si è avuto nel 2015: prendendo a pretesto la coincidenza col Ramadan, la marcia è stata vietata. Da allora, l’ultima domenica di giugno la zona di Taksim è teatro di scontri tra manifestanti Lgbtq+ e polizia. Con l’intensificarsi dell’autoritarismo e il restringersi dello spazio per la società civile, la situazione non ha fatto che peggiorare.

Dal 2022, disposizioni del prefetto hanno vietato anche le attività della settimana del Pride di Istanbul, obbligando l* attivist* a svolgere gli eventi in sostanziale clandestinità. Quell’anno gli arresti hanno raggiunto la cifra record di 373. Pochi mesi dopo si è svolta nel distretto di Fatih una manifestazione «in difesa della famiglia» col beneplacito delle autorità, che hanno trasmesso lo spot dell’evento sulla tv pubblica, a segnare una convergenza anti-Lgbtq+ tra settori islamisti, nazionalisti e kemalisti.

NELL’ULTIMA campagna elettorale i media filogovernativi hanno regolarmente accostato il movimento Lgbtq+ ad altre minacce all’unità nazionale come il Pkk e Fetö, il movimento accusato del fallito golpe del 2016.

Nell’accordo di coalizione tra l’Akp di Erdogan e il partito islamista Yeniden Refah Partisi figura la chiusura delle organizzazioni Lgbtq+, misura che potrebbe concretizzarsi con la modifica costituzionale sulla protezione della famiglia attualmente allo studio. Solo a Istanbul nell’ultimo mese la prefettura è intervenuta per impedire lo svolgersi del Pride studentesco dell’Università del Bosforo e della Mimar Sinan, la proiezione di un film e l’incontro Tea and Talk organizzato dall’associazione Lambda.

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Nonostante la retorica governativa e le politiche di repressione, gli ultimi due decenni hanno visto il proliferare di associazioni, organizzazioni universitarie e manifestazioni Lgbtq+ in tutte le grandi città e i centri minori.

La manifestazione lampo di domenica dimostra come oggi, in vista di altri cinque anni di governo islamo-nazionalista, il movimento Lgbtq+ sta sviluppando nuove tattiche organizzative per resistere all’inevitabile intensificazione delle misure repressive.

IN SEGUITO al corteo non autorizzato, che ha colto impreparate le autorità, la polizia ha rastrellato il quartiere di Besiktas, arrestando arbitrariamente almeno 96 persone anche in altre zone.

* Fonte/autore: Cecilia Arcidiacono, Francesco Pasta, il manifesto