Libia. Il governo Meloni tratta con i criminali e riceve Khalifa Haftar
Lo sviluppo dell’Africa? No, retorica e business. Con la cosiddetta emergenza dei flussi migratori e la Libia spaccata, il governo tratta con tutti i grandi, piccoli e criminali raìs nordafricani
Altro che “piano Mattei” per lo sviluppo dell’Africa, lastricato dalla retorica delle buone intenzioni e soprattutto dal business: la cosiddetta «emergenza dei flussi migratori» e la Libia spaccata in due (in tre con il Fezzan) dispongono il governo a trattare con tutti i grandi e i piccoli raìs nordafricani, inclusi o meno in varie liste criminali. Del resto, caduti nelle primavere arabe del 2011 gli autocrati di lungo corso come Gheddafi, Ben Alì e Mubarak, oggi restano i loro epigoni che non sono più soltanto carcerieri di migranti, come i loro predecessori, ma anche direttamente trafficanti di esseri umani che fanno cassa e impongono nuovi ricatti.
In questa schiera c’è Khalifa Haftar, ricevuto ieri dal premier Meloni a Palazzo Chigi e il giorno prima dal ministro degli esteri Tajani. Haftar era un protetto di Gheddafi che gli affidò la sanguinosa campagna del Chad negli anni Ottanta. Caduto in disgrazia dopo la disfatta libica di Wadi Al Dum, Haftar fu fatto prigioniero dai ciadiani, successivamente liberato con la mediazione Usa per poi trascorrere 20 anni di comodo esilio in Virginia dove ottenne la cittadinanza americana. Con la caduta di Gheddafi è tornato in Libia, accompagnato dai figli Saddam e Belgacem, diventando protagonista di tentativi di golpe e dell’ ”Operazione dignità” contro i jihadisti.
Nell’accogliente Virginia, per altro, un tribunale distrettuale nel 2022 lo ha condannato per crimini di guerra e contro l’umanità, perpetrati, secondo la denuncia di numerose famiglie libiche, durante la seconda guerra civile libica del 2019-2020, quando Haftar aveva stretto d’assedio Tripoli e venne poi sconfitto dai droni del leader turco Erdogan che punta anche sulla Libia per le sue proiezioni geopolitiche nel Mediterraneo.
Ma non c’è da fare troppo gli schizzinosi visto che per Haftar non c’è stata nessuna conseguenza per la condanna del tribunale della Virginia e che lo stesso governo americano, paladino assai intermittente dei diritti umani, ha inviato di recente in Libia l’assistente segretario di stato per il Medio Oriente, Barbara Leaf, proprio per incontrare Haftar. I due in questa occasione avrebbero parlato della necessità di allontanare i mercenari russi della Wagner, alleati del generale, e di raggiungere un accordo per indire nuove elezioni, anche se nessuno sembra credere davvero nella fattibilità a breve di entrambi i propositi. L’importante, per il momento, è fare finta di crederci.
E qui tutti facciamo un po’ finta. Meloni si era recata in visita a Tripoli lo scorso 28 gennaio dove aveva incontrato il premier del governo di unità nazionale, Abdulhamid Dabaiba – un altro che promette (ma non mantiene) di rispettare gli accordi sui migranti e tantomeno i diritti umani – mentre l’operazione Haftar a Roma è avvenuta con la mediazione del generale egiziano Al Sisi dopo l’incontro con Tajani in marzo al Cairo. Dove Tajani aveva fatto finta di credere alle rassicurazioni di Al Sisi sui casi Regeni e Zaki, per poi parlare del contenimento dei flussi migratori e della necessità di fare pressioni su Haftar, amico dell’Egitto, della Russia, degli Emirati e della Francia. Francia, che come dimostra il caso Darmamin-Meloni, non perde occasione per infiammare i nervi tesi tra Roma e Parigi.
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Più della metà degli arrivi del 2023 dalla Libia (10mila su 17mila) proviene della Cirenaica di Haftar, secondo i dati del Viminale elaborati da Agenzia Nova. Sia chiaro: questa non è la prima volta che omaggiamo Haftar. Nel dicembre 2020 il premier Conte e il ministro degli esteri Di Maio erano volati a Bengasi per liberare 18 pescatori di Mazara del Vallo. Ma trattare con lui oggi appare sempre più urgente visto che dalla Cirenaica sono partiti negli ultimi mesi migliaia di migranti con un aumento nel 2022 del 25% secondo le stime dell’Unhcr.
L’Italia sarebbe pronta a siglare un accordo sui migranti – soldi a milizie e a motovedette per controllare in campi di concentramento la disperazione dei profughi, sul modello di quello, assai contestato e denunciato dall’Unhcr (Onu-Diritti umani) firmato da Minniti nel 2017 con Tripoli – anche con l’imbarazzante generale già condannato per crimini di guerra.
Ma il generale non è più soltanto «l’uomo forte» della Cirenaica. Da qualche mese, grazie ad un accordo con il premier di Tripoli Dbeibah, Haftar è tornato a essere uno degli interlocutori decisivi in Libia, nonostante che nel 2019-20 avesse provato ad attaccare senza successo Tripoli, scatenando mesi di guerra civile e provocando centinaia di morti. Allora neppure i russi si erano fidati di lui e la Wagner non aveva appoggiato i suoi sforzi per prendere la capitale libica: questo avrebbe significato un nuovo scontro tra Putin ed Erdogan che già si affrontavano in Siria e nel Nagorno Karabakh. Mosca aveva scelto di arrivare a un’intesa con Ankara sulla Siria, tornata di recente nel grembo del mondo arabo, mentre trattava con Egitto e Sudan per un’eventuale base militare sul Mar Rosso.
Quali sono le carte di Haftar? L’instabilità della Libia da dove l’Italia prende gas (Greenstream) e petrolio. E soprattutto la profonda crisi economica della Tunisia (dove è diretto il ministro degli Interni Piantedosi) e dello stesso Egitto. A tutto questo si sono aggiunte le conseguenze della guerra tra generali in Sudan (Dagalo “Hemetti” è legato ad Haftar e alla Wagner). La sua arma di ricatto è l’aumento dei flussi migratori che in parte controlla all’incrocio di deserti sguarniti, stati falliti e senza confini certi. Così un generale golpista, condannato per crimini di guerra, adesso diventa anche un «rispettabile» interlocutore.
* Fonte/autore: Alberto Negri, il manifesto
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