Pur di stringere con re Ibn Saud l’accordo «petrolio in cambio di sicurezza», il presidente Usa Roosvelt nel lontano febbraio 1945 rinunciò per due giorni all’amatissimo sigaro, detestato come l’acol dall’inflessibile monarchia wahabita. A cosa dovrebbe rinunciare oggi Biden per farsi obbedire dal tenebroso principe assassino Mohammed bin Salman? Riad con l’Opec e la Russia ha tagliato di oltre un milione di barili la produzione giornaliera di greggio puntando su un deciso aumento dei prezzi: esattamente il contrario di quello che gli americani chiedono dall’anno scorso alla monarchia saudita, un tempo il maggiore alleato Usa nella regione insieme a Israele.
Agli americani sulla politica energetica, ma anche sul resto, non obbedisce più nessuno, tranne gli europei che con l’aggressione di Putin all’Ucraina hanno sanzionato la produzione russa sia di gas che di greggio. Altri stati dell’Opec come Kuwait, Emirati Arabi Uniti – membro del Patto di Abramo con Israele – e l’Algeria hanno seguito la strada dell’Arabia saudita, mentre la Russia prevede di continuare a tagliare la produzione fino alla fine del 2023. Gli analisti si aspettano forti rialzi. La banca d’affari americana Goldman Sachs ha alzato le stime di prezzo del Brent a 95 e 100 dollari al barile rispettivamente per il 2023 e il 2024. Si tornerebbe così ai livelli dell’agosto scorso. I riflessi si vedrebbero anche sull’aumento dell’inflazione per i rincari dei carburanti e dei trasporti e il rischio è di vedere, dopo una breve tregua, di nuovo crescere i costi della borsa della spesa e quelli di bollette di luce e gas.
La disputa tra Washington e Riad è evidente. Nell’ottobre del 2022 la Casa Bianca aveva accusato l’Arabia Saudita di essersi schierata con la Russia perché, nonostante la crisi energetica, Riad sembrava agire dalla parte di Mosca. Poi i sauditi si sono irritati perché l’amministrazione Biden ha pubblicamente escluso nuovi acquisti di greggio per ricostituire le scorte strategiche statunitensi. In precedenza la Casa Bianca aveva assicurato all’Arabia Saudita tutto il contrario.
Dietro a tutto questo c’è un poderosa evoluzione geopolitica di una parte di mondo, sempre più multipolare, che non segue le direttive di Washington. Si tratta della presa d’atto che vent’anni di iniziative americane e occidentali in Medio Oriente, dalla guerra in Afghanistan a quella in Iraq, alla Libia, alla stessa Siria, sono finite in un disastro. Svanite le illusioni delle primavere arabe del 2011, andati in frantumi gli accordi di Obama con Teheran sul nucleare (cancellati da Trump), abbandonati e traditi i curdi, relegati i palestinesi in un’inaccettabile doppio standard che vìola regolarmente da decenni ogni risoluzione Onu, a Washington non resta che qualche sceicco, un generale, Al Sisi, che per tenere in piedi l’Egitto ha bisogno dei soldi sauditi e un alleato scomodo nella Nato come Erdogan, che fa di tutto pur di tenere in scacco l’Alleanza e mostrarsi ben intenzionato con Putin, senza mettere sanzioni a Mosca e mediando accordi sul grano indispensabili per non affamare il Sud del mondo.
Erdogan davanti a una folla di seguaci della destra dei Lupi Grigi, alleati del partito Akp e radunati in vista delle elezioni del 14 maggio, ha appena dichiarato senza mezzi termini che si «prepara a impartire una lezione agli Stati Uniti» e ha attaccato direttamente Biden perché l’ambasciatore Usa in Turchia ha fatto visita al rivale, il repubblicano Kemal Kilicadaroglu. Come è noto la leadership turca imputa agli Usa di avere partecipato con la rete di Fethullah Gulen (in esilio dal ’99 in Usa) al fallito colpo di stato nel luglio 2016. E allora a congratularsi con Erdogan per lo scampato pericolo fu Putin non gli alleati Nato della Turchia.
Sia chiaro: gli Stati Uniti non hanno certo mollato il Medio Oriente. La quinta flotta Usa è in Barhein, i contingenti di soldati americani sono dovunque, dal Qatar alla Siria all’Iraq, dove a venti anni dalla guerra del 2003 la Federal Reserve controlla ancora tutte le entrate petrolifere irachene. Senza contare che in Israele, nonostante un assetto sempre più illiberale, affluiscono copiosamente gli aiuti militari americani. Ma è evidente che i recenti accordi tra Arabia saudita e Iran, così come quelli che hanno sdoganato il siriano Assad nel mondo arabo, hanno incrinato la presa americana sul Golfo. Qui gli americani hanno un interesse principale: controllare i flussi energetici che vanno verso l’Asia e la Cina. A questo non vogliono rinunciare ma la missione è assai più complicata che imporre agli europei di sganciarsi dalla Russia e da quel North Stream 1 e 2 che era apertamente nel mirino degli Usa sin dal 2021, ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina e dell’attentato. Certo il futuro non è roseo. Gli accordi tra Teheran e Riad sono tra due stati che hanno in comune la difesa di un ordine sociale oscurantista e patriarcale: un orizzonte nero come il petrolio.
* Fonte/autore: Alberto Negri, il manifesto[1]