La guerra invisibile contro il diritto di migrare

La guerra invisibile contro il diritto di migrare

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Contro i migranti è in atto una guerra che si inscrive nell’orizzonte di un violento scontro di classe su scala globale

Contro i migranti è in atto una guerra (Pagliassotti, La guerra invisibile, 2023) che si inscrive nell’orizzonte di un violento scontro di classe su scala globale. La necropolitica oscura, nelle politiche sull’immigrazione, la figura del doppio binario, che, accanto alla repressione (controllo, detenzione, respingimenti), contempla l’integrazione come riconoscimento di diritti. Si impone, nello scontro “sovranità degli Stati versus universalità dei diritti”, una versione crudele della sovranità, che si manifesta materialmente come «controllo sulla mortalità» (Mbembe).

Non solo la perdita di una comunità politica, garante dei diritti, esclude l’individuo «dall’umanità» (Arendt), le persone che si presentano alle frontiere sono considerate colpevoli di un “atto di aggressione” che si integra semplicemente attraverso la rivendicazione della possibilità di esistere; la volontà di vivere un’esistenza degna diviene un attentato ai confini nazionali.
Alla “aggressione” i supposti aggrediti rispondono con la costruzione di muri fisici (sono 2.048 i chilometri di recinzione ai confini europei) e giuridici: dall’esternalizzazione delle frontiere all’idea di Paese sicuro, dall’hotspot approach alla neutralizzazione della protezione speciale (al cui ultimo atto assistiamo in questi giorni).

I migranti sono una «minaccia ibrida», concetto che nasce in ambito Nato ed esonda nelle politiche dell’Unione europea: sono una pedina, merce di scambio nel contesto geopolitico (la Dichiarazione Unione europea-Turchia del 2016 insegna), carne da cannone di guerre miste e “a pezzi”. E i migranti sono il substrato che regge e, insieme, è il prodotto di un modello – economico, sociale, politico, antropologico – strutturalmente diseguale: sono gli oppressi della storia, ovvero i dannati della terra, i nemici di classe. Sono “nemico reale” di un neoliberismo che si blinda e “nemico ideale” all’interno delle cittadelle fortificate per evocare paure e distogliere l’attenzione dalle diseguaglianze e dai muri sociali, per compattare in un nazionalismo razzista escludente ed occultare il conflitto sociale. Oltre, ça va sans dire, a essere merce, forza lavoro funzionale al tessuto produttivo (la politica dei decreti flussi).

Nella consapevolezza che lo stato di emergenza per i migranti è stato di eccezione per la democrazia, che la negazione della pari dignità umana si riflette in una regressione nell’essere umani, che il genocidio ai confini è la fine dei diritti universali, che la guerra contro i migranti è parte di una lotta di classe globale, proviamo a spezzare la gabbia dell’esistente.

Invertiamo la rotta: a partire dal diritto di asilo, l’unica ipotesi nella quale la libertà di circolazione transnazionale non è monca e asimmetrica ma contempla il diritto di ingresso in un altro paese. Invece di restringere l’asilo, di delocalizzarlo, di criminalizzare chi lo richiede in quanto potenziale truffatore, fondiamo sul diritto di asilo il diritto di migrare, rifiutando la distinzione fra richiedente asilo e migrante economico, rompendo il dominio dei confini in nome del «pieno sviluppo» di ciascuno e di tutti (articolo 3, comma 2 della Costituzione).

Per assaltare il cielo della “normalità giuridica”, possiamo appoggiare la scala alla Costituzione e trarre dalla formula ampia che riconosce il diritto di asilo a chi sia impedito l’effettivo esercizio delle «libertà democratiche» (articolo 10, comma 3) un elemento per scardinare la distinzione. In una democrazia sociale fondata sui doveri di «solidarietà politica, economica e sociale» (articolo 2), sull’uguaglianza sostanziale (articolo 3, comma 2), consapevole dell’inscindibilità fra i diritti civili e sociali, qual è il senso di riconoscere l’asilo a chi è impedita la libertà di espressione e non a chi non è garantito il diritto di istruzione? Perché riconoscere il diritto di asilo a chi fugge dalla guerra e non a chi fugge della povertà? Il motivo, certo, è chiaro (in sintesi, la difesa dello status quo), e si è consapevoli che un diritto di asilo che si fonde con il diritto di migrare è uno strappo del pensiero ai rapporti di forza, ma senza atti di insorgenza, anche nell’interpretazione del diritto, si consegna inesorabilmente il mondo alla legge del più forte. Senza immaginazione si perde l’orizzonte del costituzionalismo, la sua forza prescrittiva contro il potere e nel nome dei diritti. Con una precisazione: l’immaginazione non vive nel regno dell’astrazione, ma è un qualcosa di concreto, è un «fare pensante» (Castoridis).

* Fonte/autore: Alessandra Algostino, il manifesto



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