Sardegna. Morto in carcere, per la famiglia non è suicidio
Sulla vicenda del 42enne romano deceduto lo scorso 12 ottobre a Oristano restano troppi punti oscuri. La richiesta: «Fate l’autopsia»
C’è qualcosa che non torna nella morte di Stefano Dal Corso. Ne è convinta la famiglia del detenuto scomparso nel carcere di Oristano il 12 ottobre scorso. Per le autorità si è trattato di un suicidio, ma restano diversi punti controversi. Per dissiparli basterebbe un’autopsia, finora però è stata negata. «Appena ho visto che non era stata fatta ho presentato istanza. Era venerdì 21 ottobre, la mattina seguente avevo già la risposta negativa dalla procura», dice l’avvocata dei parenti Armida Decina nella conferenza stampa organizzata ieri al Senato dalla senatrice Ilaria Cucchi (Alleanza verdi e sinistra).
Dopo il rifiuto dell’esame autoptico la legale ha chiesto copia di atti e fotografie. «Ne arrivano tredici, ma ci sono delle stranezze: manca la foto del ritrovamento di Stefano e non ci sono immagini del suo corpo nudo», continua Decina. Intorno al collo del 42enne del Tufello, quartiere popolare di Roma, si nota un segno rosso. Si sarebbe impiccato con un lenzuolo alla finestra della cella e sarebbe morto per la rottura dell’osso del collo. «Nelle foto però il letto è intatto. Nessuno ci ha detto dove avrebbe preso il lenzuolo usato per stringere il cappio», aggiunge l’avvocata. Alla quale diversi medici hanno riferito che è impossibile certificare la rottura dell’osso del collo a occhio nudo. Si può fare solo con due esami: autopsia o Tac.
«Non ci credo che mio fratello si sia suicidato. Nelle ultime lettere parlava dell’amore per la figlia di sette anni, della volontà di rifarsi una vita dopo il carcere», dice la sorella Marisa Dal Corso. Trattiene a stento le lacrime. «Avendo lavoro e soldi intorno a me difficilmente cadrò in basso come altre volte», scriveva suo fratello raccontandole la possibilità di ottenere un impiego in semilibertà. Ipotesi che avrebbe preferito a quella della comunità di recupero di Villa Maraini. La lettera è datata 6 ottobre 2022, lo stesso giorno dell’ultima udienza a Oristano.
Dal Corso aveva ricevuto una condanna inferiore ai due anni che stava scontando ai domiciliari a casa della sorella, a Roma. Ad agosto 2022 è stato trovato fuori, mentre portava a passeggio i cani, e rinchiuso a Rebibbia. Nel carcere sardo è finito per un’udienza di un secondo processo. Aveva accettato il trasferimento, invece di partecipare da remoto, per poter incontrare in un colloquio la figlia che vive sull’isola.
«13 anni fa in questa stessa sala parlamentare un’altra famiglia mostrava le foto di un ragazzo morto in carcere. Sono qui in veste istituzionale ma anche come sorella di Stefano», dice la senatrice Cucchi. Che chiede una legge per rendere obbligatoria l’autopsia per chiunque perda la vita dietro le sbarre. L’Italia è uno dei pochi paesi europei a non averla.
Se la procura rifiutasse anche la seconda richiesta dell’avvocata dei parenti resterebbe solo una strada per l’esame: pagare. Ben ottomila euro. «Quella dei Dal Corso è una famiglia umile che non ha una simile disponibilità economica. Non è giusto che solo chi ha i soldi può cercare la verità. Abbiamo attivato un crowdfunding per raccogliere i fondi necessari», dice Luca Blasi, assessore alla Cultura del III municipio di Roma (dove si trova il Tufello).
Un ultimo mistero sulla vicenda è quello di un libro. Fateci uscire da qui, testo sulla mistica austriaca Maria Simma arrivato alcuni giorni dopo la morte di Dal Corso nella casa dove scontava i domiciliari. Un pacco anonimo spedito con Amazon, da cui la famiglia non è riuscita a ottenere il mittente. Nell’indice sono cerchiati due capitoli: la confessione; la morte. Potrebbero essere ulteriori elementi su cui indagare.
* Fonte/autore: Giansandro Merli, il manifesto
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