Sanità. L’arrembaggio del settore privato che invade il pubblico

Sanità. L’arrembaggio del settore privato che invade il pubblico

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Senza fondi per il personale, la Campania integra i laboratori per ridurre le liste d’attesa. Il governatore De Luca: «A Roma c’è qualcuno che ha in testa l’idea delle assicurazioni private». Ospedali: in 16 regioni si fanno più prestazioni in intramoenia che istituzionali

 

«Svuotare le liste di attesa facendo un accordo con il comparto sanitario privato, laboratori e cliniche»: è l’obiettivo annunciato ieri dal presidente della regione Campania, Vincenzo De Luca. «Siamo nella media nazionale pur avendo 10, 15mila dipendenti in meno ma vogliamo fare di più – ha aggiunto -. Faremo un accordo anche con le farmacie per le prenotazioni, che saranno tutte riversate sulla Centrale unica di prenotazione». I tempi che devono essere garantiti saranno 72 ore per le prestazioni urgenti; 10 giorni per le prestazioni brevi; 30 giorni per le visite; 60 giorni per gli accertamenti diagnostici; 120 giorni per le prestazioni programmate.

I RISULTATI confluiranno sul fascicolo sanitario elettronico: «Il 92% dei referti viene già riversato sulla piattaforma». Senza nuovi fondi, la ricetta di De Luca è in linea con quella del ministro Schillaci: integrare sempre di più i privati nel Sistema sanitario nazionale. Eppure il presidente campano non risparmia critiche all’esecutivo: «Possiamo considerarci ancora una sanità pubblica, ma non per molto se l’atteggiamento del governo rimane quello di oggi. Se non ci sono le risorse, se non c’è un euro in più per il personale come si svuotano le liste di attesa? A Roma c’è qualcuno che ha in testa l’idea della sanità con le assicurazioni private».

LA DIRETTRICE della Direzione centrale per le statistiche sociali e il welfare dell’Istat, Cristina Freguja, mercoledì in Commissione Affari Sociali del Senato ha spiegato: «Nel confronto tra il 2022 e gli anni pregressi della pandemia, emerge un’inequivocabile barriera all’accesso (alle cure ndr) costituita dalle lunghe liste di attesa, che nel 2022 diventa il motivo più frequente (il 4,2% della popolazione), a fronte di una riduzione della quota di chi rinuncia per motivi economici (3,2%). Rispetto al 2019 aumenta soprattutto la quota di persone che dichiara di aver pagato interamente a sue spese visite specialistiche e accertamenti diagnostici».

NEL 2021, la spesa sanitaria direttamente a carico delle famiglie è stata di 36,5 miliardi. Un dato allarmante che si somma alla relazione stilata da Agenas: negli ospedali pubblici sono maggiori le prestazioni fornite a pagamento in intramoenia, quasi la metà dei medici svolge il doppio incarico. Un dato che si ripete in 16 regioni così un italiano su 10 rinuncia alle cure. «La doppia anima pubblica e privata della nostra sanità può costituire una chiave di volta per superare le disuguaglianze a livello territoriale» il commento di Schillaci.

IL REPORT AGENAS. Ad esempio, per la visita cardiologica con elettrocardiogramma in un’azienda della regione Campania nel 2021 le prestazioni in intramoenia hanno superato del 261% quelle istituzionali; per le visite ginecologiche in tre aziende dell’Emilia Romagna nel 2021 la situazione peggiora rispetto ai due anni precedenti toccando in un caso il picco del 122%. Lo stesso in Piemonte con il picco del 135%. Nel test cardiovascolare da sforzo in un’azienda siciliana si è raggiunto addirittura il 325%. Mentre nel pubblico, secondo Cittadinanzattiva, si attende fino a 720 giorni per una mammografia, un anno per Tac e risonanze, se si paga nel 57% dei casi si aspettano meno di 10 giorni, tra gli 11 e i 30 per le visite specialistiche.

«NON POTER DISPORRE delle risorse sufficienti a erogare tutta l’assistenza necessaria comporta il rischio concreto di non assistere le fasce più deboli della popolazione, con la compressione di un diritto essenziale costituzionalmente tutelato»: in sostanza il Sistema sanitario pubblico è a rischio crac. L’allarme è stato lanciato martedì dalle regioni in un incontro con i ministri Schillaci e Giorgetti (Mef). Al governo è stato consegnato un documento elaborato dalla Commissione Salute della Conferenza delle regioni: «Se davvero il livello di finanziamento del Ssn per i prossimi anni dovrà assestarsi al 6% del Pil (come previsto in legge di Bilancio ndr), prospettiva che le regioni chiedono che venga assolutamente scongiurata, occorrerà allora adoperare un linguaggio di verità con i cittadini. Se volessimo raggiungere i livelli del Regno unito, occorrerebbero per il nostro Ssn circa 20 miliardi di euro in più l’anno; mentre per arrivare ai livelli di Germania e Francia circa 40».

LE REGIONI chiedono un tavolo per stabilire «interventi urgenti di ordine finanziario e legislativo attraverso cui non interrompere la programmazione sanitaria e di evitare la riduzione dei servizi sanitari e socio assistenziali». Proposta accolta dai ministri salvo aggiungere che, nel breve termine, non ci sono nuove risorse. Così mentre il governo manda avanti l’autonomia differenziata, la Conferenza delle regioni mette nero su bianco che la sostenibilità economico-finanziaria dei bilanci sanitari è fortemente compromessa da un insufficiente livello di finanziamento anche per «gli oneri per i rinnovi contrattuali del personale dipendente e convenzionato e, nell’anno 2023, anche dell’emolumento accessorio pari al 1,5% del costo del personale, quantificato in oltre 600 milioni di euro».

E POI C’È IL MANCATO finanziamento di una quota rilevante delle spese pandemiche: oltre 3,8 miliardi nel 2021 a cui le regioni hanno dovuto sopperire con risorse proprie (e un buco ci sarà anche per il 2022). A questo si aggiunge l’inflazione e la crescita dei costi per le bollette, solo parzialmente coperto in finanziaria. Insomma il rischio «di disavanzo e di potenziale commissariamento» delle regioni è molto concreto.

* Fonte/autore: Adriana Pollice, il manifesto



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