by Elena Basso * | 14 Marzo 2023 10:53
Brigate della Salute in prima linea nelle proteste anti-governative che anche se violentemente represse da tre mesi scuotono il paese. Parlano i medici e i paramedici che sfidano la repressione per curare i manifestanti feriti. «Ultimamente – racconta Carlos della Brigata 14N – abbiamo curato persone a cui avevano sparato un proiettile di gomma così da vicino da perdere un occhio o gente con danni irreparabili perché gli era stata lanciata una bomba lacrimogena sulla testa»
JULIACA. È una calda serata estiva e la tenda usata dai medici si trova nel centro di Lima. Di improvviso i poliziotti iniziano a sparare, hanno deciso che i manifestanti devono andarsene da lì. I cittadini, che sono migliaia e che fino a quel momento hanno manifestato pacificamente, rispondono all’aggressione degli agenti lanciando pietre. Così da dentro la tenda i medici iniziano a sentire solo il rumore dei sassi e quello dei proiettili che sfiorano le loro teste. Di improvviso tutto si riempie di fumo: i poliziotti hanno lanciato le bombe lacrimogene direttamente dentro la tenda.
NESSUNO RIESCE PIÙ a respirare o a vedere nulla, nonostante la maschera antigas che indossano. Si sentono solo urla, sirene e spari: è guerra. Faticosamente, aiutandosi l’un l’altro, riescono a trovare l’uscita e si mettono in salvo camminando fra manifestanti feriti e bombe lacrimogene. Arrivano in un angolo più riparato dove riescono a respirare di nuovo, ma pochi secondi dopo arriva un gruppo di paramedici che trasporta un ferito. Avrà circa 40 anni, alle spalle ha legata una bandiera su cui si legge «Perú te quiero» (Perù ti voglio bene) e fra le mani stringe ancora un cartello che recita «Dina assassina». Perde sangue da una gamba, i medici non sanno se sia stato colpito da una bomba lacrimogena o da un proiettile ma, se vogliono aiutarlo, devono agire in fretta.
DAL 7 DICEMBRE SCORSO il Perù è sconvolto da una rivolta senza precedenti, iniziata per protestare contro l’incarcerazione del presidente democraticamente eletto Pedro Castillo che aveva tentato di mettere in atto un golpe di Stato sciogliendo il Congresso, le manifestazioni sono cambiate velocemente e oggi chi scende in piazza lo fa contro le enormi disuguaglianze sociali che affliggono il Paese latinoamericano e per pretendere le dimissioni di Dina Boluarte, nominata nuova presidente del Perù.
Da quando sono iniziate le proteste a scendere per strada però non sono solo i manifestanti, a farlo sono anche gruppi di medici e infermieri che si sono organizzati in diverse Brigate della salute: volontari che aiutano le persone ferite durante le manifestazioni. Infatti, se le proteste dei cittadini peruviani dal 7 dicembre ad oggi sono cambiate, ciò che invece è rimasta una costante è la brutale repressione con cui la polizia e i militari hanno tentato di soffocare la rivolta. È impossibile quantificare il numero di manifestanti arrestati con imputazioni che vanno da criminalità organizzata a terrorismo o quelli feriti, anche in modo gravissimo. Mentre i cittadini uccisi, secondo i numeri ufficiali, sono 60 ma le associazioni che stanno seguendo i casi sostengono siano quasi 80.
«ALL’INIZIO DELLE PROTESTE i poliziotti sparavano proiettili di gomma e lanciavano le bombe lacrimogene in alto, non contro il corpo delle persone. Agivano secondo la legge – racconta oggi Carlos, 47 anni, paramedico della Brigata 14N -. Ma in questi mesi il loro comportamento è cambiato. Abbiamo curato persone a cui avevano sparato un proiettile di gomma così da vicino da perdere un occhio o cittadini con danni irreparabili perché gli era stata lanciata una bomba lacrimogena sulla testa».
Nonostante la rivolta stia paralizzando da quasi tre mesi il Paese però la politica non sembra voler rispondere ai cittadini: la presidente Dina Boluarte non si dimette e il Congresso ha rifiutato tutti i disegni di legge presentati per anticipare le elezioni. Una posizione che non fa che accrescere la rabbia dei manifestanti, soprattutto nel Sud del Paese, dove si sono concentrate la maggioranza delle proteste e da cui nel corso dell’ultima settimana sono partite delegazioni del popolo Aymara per protestare nella capitale. Ma, ancora una volta, le manifestazioni non hanno ottenuto alcun risultato.
QUELLA PERUVIANA è una rivolta portata avanti dai contadini e dalle popolazioni indigene, dagli abitanti delle zone rurali, le più discriminate e povere del Perù che non hanno beneficiato della crescita economica del Paese e che, anzi, continuano a vivere in una situazione di forte povertà: nella maggior parte delle regioni del Sud gli abitanti non hanno accesso a istruzione e sanità di qualità o a un sistema fognario.
Dall’inizio delle proteste i medici volontari che sono stati feriti, incarcerati o perfino uccisi sono molti, ma ogni giorno decine di persone si uniscono alle Brigate di Salute. «So che è rischioso – dice Carlos – Ma lo faccio per mia figlia. Ora è piccola, ma per il carattere che ha sono certo che appena potrà scenderà in piazza a manifestare contro le ingiustizie. Se le dovesse succedere qualcosa vorrei che qualcuno la aiutasse. Io in ogni manifestante vedo mia figlia e li aiuto come se fossero lei».
L’EPICENTRO DELLA RIVOLTA è la regione di Puno, nel Sud del Paese, dove sono stati uccisi 29 cittadini, 17 in un solo giorno a Juliaca, che dal 9 gennaio scorso vive una situazione da guerra civile. La città peruviana è completamente paralizzata, l’aeroporto (dove è avvenuto il massacro) è occupato dalle forze dell’ordine e le strade intorno alla città sono bloccate dalle barricate che ogni giorno mettono in piedi i manifestanti.
Karla ha 25 anni ed è all’ultimo anno di medicina, da due mesi scende per strada ogni giorno per soccorrere chi viene ferito: «Il 9 gennaio i cittadini stavano manifestando pacificamente. Io ero in casa quando sui social hanno cominciato a circolare video di cittadini uccisi o feriti. Ho preso gli strumenti medici che avevo in casa e sono corsa fuori. Dovevo farlo. Quando sono arrivata nell’epicentro delle proteste c’erano solo feriti, arrivavano da tutte le parti. Erano tutti svenuti, non potevano nemmeno dirci come si chiamassero o cosa fosse successo. Non lo potevo credere».
A MORIRE QUEL GIORNO sono stati soprattutto giovani, ragazzi di 16, 17 o 20 anni. «È diverso se vedi arrivare un ferito in ospedale o se sei in mezzo a pallottole e bombe, se stai guardando il viso di una persona che hai di fronte e in un secondo cade a terra morta», aggiunge Katerin, 26 anni, dottoressa volontaria. «La cosa più terribile che ho visto è il panico che invade le persone quando i poliziotti sparano – conclude Karla -. Donne e uomini che cercano di scappare in ogni modo con il terrore negli occhi. Non capiscono più nulla in quei momenti, sanno solo che non vogliono morire».
* Fonte/autore: Elena Basso, il manifesto[1]
ph by Brigadas 14N
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