by Giulia D'Aleo * | 17 Marzo 2023 11:20
Gli ultimi sei trasferiti a Trapani, Potenza e Macomer. Due anni fa nel centro si tolse la vita un giovane originario della Guinea
Si è svuotato il Cpr (Centro per il rimpatrio) di Torino, chiuso per la prima volta, seppur temporaneamente, in quasi 25 anni di storia. Nell’ultimo mese una serie di rivolte scoppiate all’interno della struttura ne avevano progressivamente reso inagibili gli spazi e avevano costretto al trasferimento delle persone trattenute.
Gli ultimi sei migranti rimasti, da giorni in sciopero della fame, sono stati portati via il 2 marzo e smistati, come gli altri, tra i Cpr di Trapani, Potenza e Macomer. Adesso restano solo le forze di polizia, stanziate a presidio del centro perché ritenuto un obiettivo nel mirino della «galassia anarchica del territorio». E mentre l’ultimo decreto Meloni punta a snellire le pratiche necessarie a costruirne di nuovi, lunedì il Consiglio comunale ha approvato un ordine del giorno per chiedere al governo la chiusura definitiva del Cpr.
La protezione speciale e la risposta paradossale del governo[1]
Nella notte tra il 4 e 5 febbraio, quando è esplosa la prima protesta, le persone presenti nel centro erano 121. Alcune di loro hanno appiccato degli incendi in diversi padiglioni, dimezzando la capacità di accoglienza della struttura. Dopo la repressione della rivolta, in 79 sono stati sistemati in luoghi di fortuna per le successive 48 ore e poi spostati altrove. Caricati su dei pullman con destinazione il sud Italia, a nessuno di loro era stato comunicato dove fossero diretti. Il 20 febbraio, le poche decine di persone rimaste hanno dato alle fiamme la parte ancora agibile dell’edificio, imponendone la chiusura.
È solo l’ultima – e la più riuscita – delle rivolte interne ed esterne che periodicamente investono il Cpr di Torino, di cui attivisti e garanti denunciano da tempo le condizioni disumane di trattenimento. Un luogo impermeabile, ulteriormente isolato dalle restrizioni imposte dalla pandemia, che ha regolamentato la pratica del sequestro dei cellulari all’ingresso.
«Il Cpr di Torino è una struttura fatiscente, composta da camerate non abbastanza grandi per il numero di persone che contengono, da bagni senza porte e da un unico spazio di socialità: un cortile circondato da reti metalliche» racconta Lorenza Della Pepa, attivista della rete informale Osservatorio Cpr, nato dopo la morte di Moussa Balde, il 22enne guineano che a maggio del 2021 si è tolto la vita all’interno del centro.
Sul Cpr pende un’indagine volta ad accertare le responsabilità del suo suicidio, avvenuto dopo il confinamento «nell’ospedaletto» – una zona di isolamento sanitario, normativamente inesistente e chiusa in seguito alla sua morte –, in uno stato psicologico visibilmente compromesso.
Ma le condizioni di disagio[2] estremo a cui sono sottoposte le persone bloccate in questo «limbo giuridico», persino più restrittive che in carcere, fanno sì che la percentuale di persone con problemi psichiatrici, spesso prive di assistenza, sia sempre molto alta e che le valutazioni di idoneità al trattenimento siano generalmente sbrigative.
«C’era questo ragazzo che piangeva a dirotto – racconta Della Pepa –, perché i suoi genitori erano morti e lui voleva tornare in Tunisia, ma non si riusciva a rimpatriarlo per problemi di identificazione. Più volte ha manifestato insofferenza con gesti autolesionistici e tentato il suicidio, ma dall’ospedale continuavano a rimandarlo al Cpr».
«Qui in Tunisia ho perso tutto, non resta che partire per l’Europa»[3]
Delle persone trattenute, ogni anno più del 50% sconta poi una detenzione che non si conclude con il rimpatrio. «Nei giorni precedenti alla rivolta, dall’1 al 5 gennaio, su 122 ingressi ci sono stati solo 35 rimpatri effettivi – spiega al manifesto la garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo. – Su Torino il numero delle espulsioni è talmente basso che il centro non avrebbe ragione di esistere».
Numeri che rendono il centro, oltre che luogo di violazione dei diritti, anche un «investimento a perdere[4] – commenta l’assessore alle Politiche sociali Jacopo Rosatelli –. Chiuderlo sarebbe, inoltre, il vero gesto di riparazione verso Moussa Balde e i suoi familiari». Di un «fallimento su tutti i fronti» parla, invece, Marco Grimaldi, parlamentare di Verdi e Sinistra, sostenendo che la posizione trovi d’accordo «anche chi pensa che la politica dell’identificazione e dell’espulsione sia centrale nel nostro sistema. Un reato amministrativo non dovrebbe essere sanzionato con la privazione della libertà».
Ma il ministero dell’Interno non sembra voler perdere tempo. Così, sospeso il contratto con Ors Italia – la società svizzera che aveva in gestione la struttura e che si occupa anche dei Cpr di Roma e dei Cas di Milano e Monastir –, già dalle prossime settimane si procederà a una stima dei danni e dei fondi necessari alla sistemazione, che al momento si ipotizzano essere intorno a un milione di euro. E poi via al bando per gli interventi, così che il Cpr possa tornare attivo nel più breve tempo possibile.
«Penso che gli investimenti siano appena sufficienti a risanare i danni alla struttura, non credo che ci sia l’idea di ripensarne l’architettura – commenta la garante -. Eppure bisognerebbe riflettere sul senso di questo edificio, concepito in modo mortificante, con unità abitative simili a delle gabbie. In Cpr poco dignitosi come questo, gli eventi critici saranno sempre inevitabili».
* Fonte/autore: Giulia D’Aleo, il manifesto[5]
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