Clima. Non c’è più tempo, il manuale ONU per tentare di salvare il pianeta

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L’allarme dei ricercatori sul clima: «Raggiungere il picco delle emissioni entro il 2025»

 

«La scienza non è negoziabile» ha detto ieri Lucia Perugini, ricercatrice del Centro Euromediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc), introducendo la presentazione del volume conclusivo del Sesto Rapporto di Valutazione dell’Ipcc, la più aggiornata e completa rassegna scientifica sui cambiamenti climatici in ambito Nazioni Unite. E la scienza è concorde: non c’è più tempo. «Dobbiamo correggere le nostre traiettorie e raggiungere il picco delle nostre emissioni entro il 2025» scrive Perugini nel documento riassuntivo pubblicato sul sito del Cmcc. La questione è perciò urgente, perché non siamo in linea con gli obiettivi definiti dall’Accordo di Parigi, anche se le evidenze scientifiche dimostrano che già oggi abbiamo a disposizione tecnologie e soluzioni per raggiungere quanto concordato nell’accordo firmato nella capitale francese nel 2015.
L’IMPELLENZA è ancora più forte dopo la presentazione del volume e a otto mesi dalla prossima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2023 che si terrà a Dubai. Sarà presieduta da Sultan Al Jaber, che guida la compagnia petrolifera statale degli Emirati Arabi Uniti. Ed è un paradosso.

Il rapporto dell’Ipcc sottolinea come più di un secolo di utilizzo di combustibili fossili e di uso iniquo e non sostenibile dell’energia e del suolo ha portato a un riscaldamento globale di 1,1°C rispetto ai livelli preindustriali. Da questa situazione sono scaturiti eventi meteorologici estremi più frequenti e più intensi che hanno causato impatti sempre più pericolosi sulla natura e sulle persone in ogni regione del mondo. Esisterebbe un’ampia varietà di soluzioni, con sinergie e co-benefici promettenti. Il primo è la transizione dai combustibili fossili alle rinnovabili, che ridurrebbe l’inquinamento atmosferico riducendo al contempo le emissioni di gas serra. Seguono la gestione sostenibile delle foreste e dell’agricoltura, la protezione delle foreste, sono attività che possono assorbire anidride carbonica e apportare molti servizi ecosistemici che migliorerebbero le condizioni di vita di molte popolazioni. Tutte le opzioni devono essere attuate al massimo della loro capacità.

COME HA RICORDATO Anna Pirani, Università Ca’ Foscari, l’aumento medio delle temperature raggiungerà 1,5° gradi centigradi rispetto al periodo preindustriale entro l’inizio degli anni Trenta. Oggi siamo sulla strada che porta a un aumento della temperatura media globale che può raggiungere i 3,5°C, e questo rappresenta una minaccia per l’umanità nel suo complesso. Più si va in là, più sarà difficile tornare indietro. «Servono politiche coordinate, per azioni da prendere in questo decennio» ha spiegato Pirani.

Quello che ci troveremo ad affrontare è un overshoot, cioè il superamento degli obiettivi di contenimento del riscaldamento globale: uno sforamento probabilmente reversibile, anche se – come spiega sul sito del focal point per l’Italia di Ipcc il ricercatore Zebedee Nicholls – «alcuni degli impatti dell’overshoot potrebbero essere irreversibili e spingere gli ecosistemi verso pericolosi punti critici. Più alto è il picco e la durata del superamento della temperatura media globale, maggiori sono infatti i rischi per gli ecosistemi più sensibili, in particolare per quelli più vulnerabili ai punti critici, come le barriere coralline, le foreste pluviali tropicali e le calotte glaciali».

IN EUROPA ci si attende che il numero di decessi e persone a rischio di stress da calore aumenti con il riscaldamento globale, raddoppiando o triplicando per un innalzamento della temperatura pari a 3°C, rispetto a 1,5°C. A causa di una combinazione di caldo e siccità, si prevedono nel XXI secolo perdite sostanziali in termini di produzione agricola per la maggior parte delle aree europee. Nell’Europa centro-occidentale questo rischio diventa molto alto nel caso di un innalzamento di temperatura di 3°C, ma nell’Europa meridionale il rischio è già elevato per un livello di riscaldamento globale di 1,5°C.

E L’ITALIA? I rischi maggiori sono legati alla vulnerabilità delle coste (dove insediamenti e strutture sono frequentemente collocati poco al di sopra del livello medio del mare), all’importanza economica del settore turistico (che è posto direttamente a rischio dal cambiamento climatico e indirettamente dall’implementazione di politiche di mitigazione) e alla vulnerabilità degli ecosistemi terrestri e marini, minacciati anche da altri fattori antropici (sovrasfruttamento e inquinamento).

Un intervento radicale, però, è necessario anche in un’ottica redistributiva: il rapporto, che è stato approvato durante una sessione durata una settimana a Interlaken, fornisce un focus deciso sul tema delle perdite e dei danni che stiamo già sperimentando e colpiscono in modo particolare le persone e gli ecosistemi più vulnerabili. «La giustizia climatica è fondamentale perché coloro che hanno contribuito meno al cambiamento climatico sono colpiti in modo sproporzionato» ha dichiarato Aditi Mukherji, uno dei 93 autori di questo Rapporto di sintesi, il capitolo conclusivo della sesta valutazione del Panel. «Quasi la metà della popolazione mondiale vive in regioni altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici. Nell’ultimo decennio, i decessi per inondazioni, siccità e tempeste sono stati 15 volte superiori nelle regioni altamente vulnerabili», ha aggiunto. La conclusione è facile facile: «Le emissioni dovranno essere ridotte di quasi la metà entro il 2030, se si vuole limitare il riscaldamento a 1,5°C.». Per la precisione, meno 43%.

* Fonte/autore: Luca Martinelli, il manifesto



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