by Chiara Cruciati * | 12 Febbraio 2023 9:27
25mila morti e cento arresti in Turchia, ma Erdogan continua a prendersela con gli «sciacalli». Ad Aleppo convogli bloccati: «Siamo fermi in un checkpoint. Il regime vuole la consegna di metà del nostro carico di aiuti»
Venticinquemila morti accertati tra Siria e Turchia, ma ogni ora che passa è sempre più chiaro che il bilancio è al ribasso. Molto al ribasso. A dirlo ieri ad alta voce sono stati due uomini, uno da dietro le sbarre della maxi prigione turca di Edirne, nel nord-ovest della Turchia, e uno libero, peso massimo delle Nazioni unite, al polo opposto del paese, tra le macerie del sud-ovest.
IL PRIMO è Selahattin Demirtas, ex co-leader del Partito democratico dei Popoli, Hdp, ma ancora sua chiara guida politica. A Edirne è rinchiuso dal novembre 2016, qualche mese dopo il tentato golpe, con addosso decine e decine di anni di prigione per reati legati al terrorismo, lui che si batte per una Turchia democratica per tutti i suoi popoli: «Oltre 100mila persone sono ancora sotto le macerie – ha scritto su Twitter tramite i legali – Dal primo momento il governo ha tentato di spegnere lo sdegno nascondendo l’enormità del disastro». I morti sono almeno il doppio, Demirtas ne è convinto.
Il secondo è Martin Griffith ed è convinto dello stesso: le vittime «sono oltre il doppio», ha detto il capo degli aiuti delle Nazioni unite parlando dalla città di Kahramanmaras, epicentro del sisma del 6 febbraio, «il peggiore evento nella regione degli ultimi cento anni».
Alla stampa Griffith ha annunciato il lancio di un’operazione di tre mesi tra Siria e Turchia. Nelle stesse ore, in territorio turco, le squadre di soccorso tedesche e austriache sospendevano le operazioni di recupero, non per l’impossibilità di trovare persone ancora in vita (incredibilmente, ieri è successo ancora) ma per non meglio definite «aggressioni tra gruppi» che l’Afad, l’agenzia turca per le emergenze, non avrebbe saputo spegnere. Di più non si sa, ma di certo non aiuta.
CHE LA TENSIONE in Turchia stia montando è palese. L’impressione giunge a sprazzi, buca le priorità immediate – portare aiuti, rimuovere macerie – ma è palpabile. A Diyarbakir, cuore politico del Kurdistan storico, il ministro della giustizia Bekir Bozdag è stato preso a fischi.
A Sanliurfa la procura ha aperto un’inchiesta che verifichi le eventuali responsabilità delle compagnie edili che hanno costruito alcuni degli edifici crollati (oltre 6.500 in Turchia): «Secondo le prime analisi, abbiamo individuato seri difetti strutturali», ha detto all’agenzia Anadolu il professor Kasim Mermertas, segnalando mancanze gravi sul tipo di materiali e la quantità impiegata. Le stesse mancanze denunciate da anni da esperti e ingegneri che puntano il dito contro i continui condoni edilizi che hanno tramutato una tragedia in catastrofe.
E dopo il primo costruttore arrestato due giorni fa mentre tentava la fuga verso i Balcani, ieri i manette sono finite altre cento persone tra Sanliurfa e Gaziantep. Ne seguiranno altri: la sola procura di Diyarbakir ha emesso almeno 29 mandati d’arresto. Non è dato sapere se coinvolgano anche amministratori. Sulle responsabilità della politica, il governo tace. Il presidente Erdogan parla – lo ha fatto di nuovo ieri – solo per promettere il via alla ricostruzione entro poche settimane e per minacciare gli sciacalli.
E SE EVENTI STORICI, seppur in sordina, si palesano (ieri è stato riaperto il valico di frontiera tra Turchia e Armenia per permettere il transito di aiuti, non succedeva dal 1988), a destare i maggiori allarmi è la situazione della Siria.
Già due giorni fa Sivanka Dhanapala, il rappresentante per la Siria dell’Unhcr, ha avvertito del pericolo, concretissimo, di aggiungere ai milioni di sfollati del paese, causa guerra civile, «oltre 5,3 milioni di persone senza tetto dopo il sisma». L’assenza di un flusso costante e ingente di aiuti impedisce di pensare a una via di uscita rapida. Qualcosa è entrato anche ieri, ma a prevalere sono logiche politiche.
«Le persone si trovano nei rifugi o nei campi e hanno bisogno di tutto perché hanno perso ogni cosa – spiega Hasan, logista di Medici senza Frontiere da Al Dana, nel governatorato di Idlib, controllato da milizie qaediste – Hanno bisogno di cibo, acqua, carburante per il riscaldamento. Di coperte per dormire e di tappeti per le tende. I prezzi sono saliti alle stelle. Più dell’80% delle persone non può permettersi una razione sufficiente di cibo al giorno».
DUE GIORNI FA il parlamento di Damasco aveva autorizzato il transito di aiuti anche verso le zone controllate dalle opposizioni jihadiste, gli aiuti cioè che dovrebbero arrivare dall’estero.
Intanto, però, denuncia la Mezzaluna rossa curda, ostacola il passaggio di quelli raccolti nelle zone curde: «Siamo fermi in un checkpoint del regime – il messaggio vocale arrivato ieri al manifesto da una rappresentante della Mezzaluna rossa curda – Non ci dà il permesso di passare per andare verso Aleppo e la regione di Shahba se non gli consegniamo la metà del nostro carico, compresa un’ambulanza. Gli abbiamo proposto di lavorare anche nelle zone del regime ma vogliono gli aiuti».
* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto[1]
Photo by ANF News
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