by Chiara Cruciati * | 10 Febbraio 2023 15:45
Parla Giwan Mustafa, co-presidente del comitato salute in Rojava
Tra le macerie di Jinderis, una decina di ore dopo il sisma di lunedì mattina, è nata una bambina. La madre, Afraa Abu Hadiya, l’ha data alla luce sotto quel che restava del palazzo in cui vivevano, nel profondo nord siriano. Afraa è morta, la bambina è sopravvissuta, l’unica della sua famiglia, seppur in ipotermia. Intorno Jinderis non c’è quasi più. È una piccola cittadina, nel distretto di Afrin, lungo il confine con la Turchia.
Come il resto del cantone curdo-siriano, parte del Rojava (il Kurdistan in Siria), anche Jinderis è dalla primavera 2018 occupata dalle milizie islamiste fedeli alla Turchia. Nelle scuole ormai si insegna il turco, alla società sono state imposte le rigide regole dell’interpretazione qaedista della legge islamica. Sono quotidiani i casi di rapimento in cambio di riscatto da parte dei miliziani, uccisioni e torture di chi protesta, e pure l’imposizione di «affitti» su case e terre di proprietà: paghi per lavorare il tuo campo e per continuare a vivere nella tua abitazione.
È IN QUESTA REALTÀ di sopraffazione che lunedì si è abbattuto il sisma. A Jinderis sono crollate decine di edifici, lo stesso nelle comunità del resto del cantone: «Nell’area di Afrin si registrano moltissime perdite, in particolare nel distretto di Jinderis, dove ci sono ancora decine di persone sotto le macerie degli edifici», spiega al manifesto Giwan Mustafa, co-presidente del comitato Salute dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord e dell’est (Aanes). Qui l’Aanes dal 2012, come nel resto del Rojava, aveva realizzato un nuovo modello politico inspirato al paradigma del confederalismo democratico teorizzato dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk). Una forma di democrazia radicale e diretta spazzata via dall’occupazione turca.
«Ad Afrin nessuna organizzazione internazionale ha ancora portato aiuti – continua Mustafa – né è intervenuto lo Stato turco, al contrario sta ostacolando l’arrivo delle organizzazioni internazionali giustificando la chiusura del valico di Bab al-Hawa con i danni riportati a causa del terremoto. I miliziani jihadisti nell’area non hanno fatto nulla per recuperare i corpi, anzi ci sono stati casi di furti e saccheggi da parte di uomini armati. E così è la gente stessa che sta portando avanti le operazioni di soccorso, ma non hanno mezzi né capacità». Vittime si registrano anche nel resto della Siria del nord, seppur in misura minore. Sei morti a Sheikh Maqsoud, quartiere a maggioranza curda di Aleppo, 15 feriti tra Kobane e Manbij.
L’EPICENTRO del sisma, qui, è un altro: Shahba, area tra Afrin e Aleppo dove dal 2018 si sono rifugiati centinaia di migliaia di abitanti del cantone curdo, fuggiti all’occupazione turca. «Shahba è sotto un enorme pressione – dice Mustafa – La maggior parte dei residenti del quartiere di Sheikh Maqsoud, migliaia di persone, si stanno dirigendo lì non avendo più una casa. La vita è diventata insopportabile, c’è un grande bisogno di aiuti umanitari. Nemmeno a Shahba però c’è posto per gli sfollati, mancano le tende e le case non sono sufficienti per un simile numero di persone. Mancano cibo e vestiti».
LE CAPACITÀ dell’Aanes, dice Mustafa, sono limitate a causa dell’embargo imposto da anni sull’Amministrazione: «I nostri mezzi sono insufficienti per un disastro di tale magnitudo. Abbiamo comunque fatto partire un convoglio di aiuti verso le aree colpite, anche quelle occupate dallo Stato turco. Ma è stato bloccato dai turchi, non ci danno il permesso di passare. E al momento non c’è un coordinamento ufficiale con il regime siriano sull’operazione di soccorso».
* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto[1]
Photo by ANF News
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