by Eleonora Martini * | 5 Febbraio 2023 9:06
Il tribunale pensa ad un eventuale trasferimento in ospedale, in caso di peggioramento
La foglia di fico della «sacra» tutela della vita e della salute del detenuto Alfredo Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso, coniugata alla fermezza millimetrica sul tipo di detenzione cui è sottoposto l’anarco-insurrezionalista nel carcere di Opera (41 bis anziché Alta sicurezza, come suggerisce la stessa Procura antimafia), rischia di incartapecorirsi già nelle mani del governo Meloni ancora prima che venga utilizzata per coprire la mancanza di coraggio politico. Non c’è infatti alcun modo di imporre a Cospito – quando si rendesse necessaria – la nutrizione forzata, almeno in forza di legge e di Carta costituzionale. Non c’è modo neppure di sottoporlo a visita psichiatrica, a prescindere dalle norme, perché è evidente che nessuno psichiatra in scienza e coscienza potrebbe valutare un paziente che, per libera e lucida scelta, rifiuti fin d’ora l’eventuale colloquio. E se pure si pensasse di tentare la strada del Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio, la richiesta circostanziata da parte di due medici dovrebbe essere controfirmata dal sindaco della città dove è ubicato il carcere: in questo caso, Milano.
Piuttosto improbabile però che Giuseppe Sala possa decidere di forzare così tanto la mano, violando il corpo del detenuto, per togliere le castagne dal fuoco del governo, lui che è stato uno dei primi sindaci italiani a mobilitarsi per la legge sul cosiddetto Testamento biologico.
L’avvocato difensore di Cospito, Flavio Rossi Albertini, infatti ha presentato già una diffida al ministero della Giustizia e per conoscenza al Garante dei detenuti con le Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) sottoscritte dall’anarchico con le quali rifiuta, in caso di perdita della coscienza, l’eventuale alimentazione artificiale e altri trattamenti forzati. Un atto che si è reso necessario perché i medici del penitenziario e il Tribunale di sorveglianza di Milano, presieduto da Giovanna Di Rosa, starebbero valutando l’eventuale trasferimento dell’uomo – che attualmente è lucido e ancora in grado di stare in piedi e camminare, ma che intende continuare a rifiutare il cibo e gli integratori fino alla revoca del carcere duro cui è sottoposto dal maggio scorso – nel reparto di medicina penitenziaria dell’ospedale San Paolo, quando le sue condizioni di salute diventassero incompatibili con la detenzione.
L’avvocato non ne ha ancora avuto notizia formale ma il ricovero, per scongiurare ad esempio un arresto cardiaco, «sarebbe verosimile – afferma Rossi Albertini – in caso di un aggravamento dei parametri: era uno dei motivi per cui avevo chiesto il suo trasferimento dal carcere Bancali di Sassari. Si tratterebbe di un atto dovuto, perché è un detenuto nelle mani dello Stato e lo Stato deve fare di tutto per salvargli la vita».
I magistrati lo sanno, ed è per questo che nel ventaglio delle opzioni ci sarebbe anche il tentativo di imporre – tramite Tso – una perizia psichiatrica al 55enne pescarese per verificare le sue capacità di intendere e volere, visto che Cospito ha già rifiutato una visita con lo psichiatra del carcere, questa settimana.
«Anche senza Dat, l’articolo 32 della Costituzione vieta trattamenti sanitari senza consenso, se non per disposizioni di legge. Ma siccome in questo caso il detenuto ha manifestato pubblicamente e chiaramente la propria scelta in materia sanitaria spiegandone le ragioni, e poiché la su scelta non mette in pericolo altri, chiunque azzardi un intervento di nutrizione forzata, o un Tso con questo fine, commette un illecito». È molto chiara l’avvocata Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Luca Coscioni e membro del Direttivo di Science for Democracy, a capo del collegio difensivo di tutte le battaglie vinte sul fine vita.
Una cosa sembra evidente per un uomo, come Alfredo Cospito, che ha già usato l’arma dello sciopero della fame quando era in carcere, nel ’91, interrompendolo una volta ricevuta la grazia personale: l’anarchico ha commesso dei crimini, anche sanguinari, di cui non si è mai pentito. Ma farlo passare per “matto” per imporgli un trattamento sanitario che rifiuta, significa per lo Stato violare il principio dell’habeas corpus. Vuol dire che la violenza ha vinto.
* Fonte/autore: Eleonora Martini, il manifesto[1]
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