by Claudia Fanti * | 27 Gennaio 2023 10:47
La presidente invita al dialogo e apre alla possibilità di elezioni anticipate, poi invia l’esercito a Puno e premia la polizia accusata del massacro di 46 manifestanti. «Non un passo indietro, lo sciopero va avanti»
Nessuna tregua: al grido «Ni un paso atrás, la huelga continúa» (non un passo indietro, lo sciopero va avanti), le mobilitazioni contro la presidente Dina Boluarte e il congresso che la sostiene proseguono ininterrottamente e con esse anche la repressione governativa.
DOPO IL CLAMORE internazionale provocato dai 46 manifestanti uccisi dalla polizia, a cui il governo ha deciso persino di concedere un bonus straordinario come riconoscimento del suo «spirito di sacrificio» e della sua «professionalità», non si registrano da alcuni giorni altre vittime di armi da fuoco e delle micidiali pallottole dum dum, ma il numero di feriti da proiettili di gomma e bombe lacrimogene continua a salire.
E mentre nella capitale arrivano di continuo nuovi gruppi di manifestanti, massicce mobilitazioni si svolgono anche a Cusco, ad Arequipa e soprattutto a Puno, dove il coprifuoco notturno è stato prolungato per altri 10 giorni.
Ma la regione andina, uno degli epicentri delle proteste, è finita sotto i riflettori anche per un’altra ragione: «Puno non è il Perù», ha dichiarato Boluarte di fronte a un’interdetta stampa estera, senza accorgersi di avere appena offerto la migliore legittimazione della rivolta del Perù profondo, indigeno e contadino.
SONO POI ARRIVATE LE SCUSE della presidente, che, ha spiegato, intendeva solo evidenziare, di fronte alla paralisi quasi totale della regione andina, la preoccupazione per il benessere di tutti i peruviani: la frase è stata fraintesa, ha detto, non intendeva discriminare nessuno. Ma intanto, giusto per gettare benzina sul fuoco, il governo ha deciso di inviare a Puno anche l’esercito.
Che in questo quadro gli inviti alla pace, al dialogo e alla riconciliazione suonino appena come frasi di circostanza è fin troppo evidente. Tanto più che la presidente si ostina a negare che sia stata la polizia a usare armi da fuoco, lanciando accuse a raffica ma senza mai fornire una sola prova: i manifestanti si sarebbero uccisi tra loro con armi provenienti dalla Bolivia e sarebbero finanziati dal narcotraffico, dall’attività mineraria illegale e dal contrabbando, al fine di creare il caos, e/o incitati da Pedro Castillo dalla prigione.
LA PRESIDENTE, TUTTAVIA, è spinta sempre più all’angolo. Come se non bastasse la denuncia per crimini contro l’umanità presso la Corte penale internazionale, sul suo capo pesano anche una denuncia costituzionale per le sue responsabilità rispetto alla violenza repressiva e la prima mozione di impeachment presentata mercoledì dalle forze parlamentari progressiste, con la solita – ma stavolta giustificata – accusa di «incapacità morale permanente».
Travolta dalla critiche dentro e fuori il Perù, Boluarte si è dichiarata favorevole a presentare un progetto di legge di riforma costituzionale per tenere elezioni anticipate già quest’anno, andando incontro a una delle richieste dei manifestanti. Ma benché a chiederle sia un numero crescente di parlamentari, le destre che controllano il congresso non ne vogliono sentir parlare, troppo impegnate a trarre quanti più vantaggi possibili dalla situazione.
SI SPIEGA COSÌ L’INIZIATIVA per modificare la composizione del tribunale elettorale, colpevole, agli occhi del fujimorismo, di aver respinto le denunce di brogli da parte di Keiko Fujimori. O il progetto di legge che mira a stravolgere, a vantaggio delle imprese nazionali e transnazionali, la legge che protegge i popoli indigeni in isolamento volontario o in contatto iniziale: significherebbe, secondo l’antropologa Beatriz Huertas Castillo, «tornare indietro di un secolo» rispetto al riconoscimento dei diritti dei popoli originari.
* Fonte/autore: Claudia Fanti, il manifesto[1]
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