Il BelPaese delle armi, l’Italia bellica fra reticenze e retorica

Il BelPaese delle armi, l’Italia bellica fra reticenze e retorica

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Un percorso costellato da tre studi per capire meglio quantità e qualità dell’industria degli armamenti, fra export e mercato interno

 

Il 2023 porta in dote agli italiani con la Legge di bilancio un nuovo incremento complessivo della spesa militare con circa settecento milioni in più destinati all’acquisto di nuovi armamenti. Ma non è certo il mercato interno a fare da traino al settore industriale armato del made in Italy, che si distingue per la presenza di Leonardo e Fincantieri tra i primi cento grandi produttori mondiali.
Per capire quantità e qualità dell’industria degli armamenti italiana tre saggi illuminano il comparto, sia dell’export sia del mercato interno, disegnandone i lati spesso oscuri e controversi attraverso i quali il nostro Paese mette assieme a spaghetti e mandolini blindati e fucili, elicotteri e pistole. Armi grandi e piccole, apprezzate da molti eserciti del pianeta e piuttosto diffuse anche nel Belpaese. Un settore importante per la guerra ma in realtà ben meno rilevante di quanto si pensi come contributo nazionale in termini economici.
Ne Il Paese delle armi (Altreconomia, euro 15), Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal), di Rete Pace e Disarmo e firma nota de il manifesto, scrive che «l’Italia è il Paese delle armi… (ma anche) delle opacità e delle reticenze, dei silenzi e delle connivenze: atteggiamenti mirati soprattutto a nascondere i fatti – e i dati – ma perfettamente funzionali per alimentare la retorica». Retorica sulla sicurezza ovviamente ma anche sul valore Paese dell’industria delle armi. Importante? Niente affatto.

TANTO PER COMINCIARE la produzione di armi e munizioni ad uso civile, sbandierata come settore trainante, vale circa lo 0.05% del Pil: l’equivalente del settore giocattoli escludendo i videogiochi. Molti occupati? Nemmeno: non supera i 3.500 addetti (diecimila con terzisti e settori ausiliari) e il dato è in calo: siamo allo 0,03% su scala nazionale. Gran parte del saggio di Beretta è dedicato al ruolo che hanno nel Belpaese la vendita di armi e le leggi che dovrebbero regolarla e di come dovrebbe funzionare la responsabilità aziendale e la regolamentazione delle licenze.
Il libro Crisi globali e affari di piombo (Seb27, pp. 128, euro 15) riprende molti di questi temi, ma se Beretta approfondisce il mercato nazionale, Futura D’Aprile affida il ruolo centrale del suo saggio all’analisi dell’export militare autorizzato dall’Italia tra il 2015 e il 2021, rilevando le incongruenze tra «scelte politiche dei governi e leggi che regolano questo tipo di esportazioni», così che Roma «continua a fornire materiale militare a Paesi in guerra… sfruttando cavilli legali e zone grigie».

UN’OPACITÀ, registrata anche da Beretta, con sauditi ed egiziani, con la Turchia di Erdogan, con la Libia, il Turkmenistan o il Pakistan. Opacità che si nutrono di triangolazioni, aggiramento delle regole sul transito, cavilli legali per alimentare un «sistema economico finanziario militarizzato – scrive Alex Zanotelli nella prefazione a D’Aprile – che sta facendo guerre a non finire per avidità e bramosia», trasformando «l’homo sapiens in homo demens». Anche D’Aprile decostruisce: la vendita di armi militari è rilevante ma «costituisce meno dell’1% del Pil, meno dello 0,7% dell’export e meno dello 0,5% in termini di occupati». Potremmo farne a meno.
Il terzo saggio riguarda invece la presenza delle armi nucleari nel nostro Paese: è uno studio realizzato dalla International Association of Lawyers Against Nuclear Arms per sondare la possibilità di ricorrere – in appoggio all’azione politica – alla via giudiziaria, nazionale o internazionale, contro la detenzione di armamento nucleare sul nostro territorio.

LO STUDIO di Abbasso la guerra, a cura di Elio Pagani e Ugo Giannangeli (Parere giuridico sulla presenza di armi nucleari in Italia, pp. 185, euro 18, Pressenza/Multimage), cui hanno contribuito gli avvocati di Ialana Italia, ricorda che oggi nel mondo vi sono circa 13.400 testate nucleari e nuove sono in fase di sviluppo. E che sono cinque i Paesi Nato sul territorio europeo a detenere armi nucleari: tra questi l’Italia, con le basi di Aviano (Veneto) e Ghedi (Lombardia), con almeno una quarantina di ordigni nucleari B61 (che ufficialmente non esistono). Inoltre Ghedi ha ampliato le sue strutture per ospitare i nuovi caccia F35 (dovremmo acquistarne novanta, ognuno per 155 milioni di euro) in grado di trasportare nuove testate atomiche ancora più pericolose (le B61-12).

LA RICERCA, che analizza lo stato dell’arte delle leggi nazionali, dei trattati internazionali e delle campagne per la denuclearizzazione, conclude che «la presenza delle armi nucleari sul territorio italiano potrebbe avere rilevanza penale e comportare la responsabilità penale di chi ha importato e di chi possiede sul territorio italiano ordigni nucleari», ipotizzando «una denuncia/querela» che spinga a un’indagine sulle eventuali responsabilità. Anche di queste potremmo davvero farne a meno.

* Fonte/autore: Emanuele Giordana, il manifesto



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