Ucraina. Natale sottoterra, tra bombe e sangue

Ucraina. Natale sottoterra, tra bombe e sangue

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Bombardamenti sulle principali città. A Kherson il 25 mattina 16 morti e più di 70 feriti

 

A più di un secolo dalla prima guerra mondiale, mentre il ministro degli Esteri ucraino Kuleba parla di un possibile summit per la pace alle Nazioni Unite entro febbraio, l’Europa vive di nuovo un Natale di sangue. Le principali città ucraine sono state colpite dai bombardamenti russi e le interruzioni di corrente si sono protratte quasi per tutta la vigilia e le prime ore del 25. Kherson si è svegliata di nuovo sotto le bombe e a metà mattinata il bilancio era già di 16 morti e più di 70 feriti, la maggior parte dei quali erano civili di fronte al supermercato, a pochi metri da Piazza della Libertà. Gli abitanti di Kiev, Dnipro, Zaporizhzhia, Kramatorsk e di diverse cittadine del Donbass si sono rifugiati sottoterra per cercare di scampare alla pioggia di morte lanciata dall’altro lato dei fronti aperti e dal Mar nero. La capitale ormai affronta una scarsità di approvvigionamento di elettricità e acqua cronica; si stima che domenica 2 abitanti su 3 siano rimasti al buio per l’intera giornata.

TUTTAVIA, MALGRADO le dichiarazioni del presidente Zelensky e di altre personalità in vista come il sindaco di Kiev, l’ex pugile Vitali Klitschko, sul fatto che «nessuno ruberà il Natale agli ucraini», secondo la liturgia della Chiesa ortodossa questi giorni non sarebbero neanche festivi in quanto il rito orientale segue il calendario giuliano e non quello gregoriano come la Chiesa cattolica romana. Quindi la nascita di Gesù dai Balcani a est si festeggia il 7 gennaio e non il 25 dicembre. Ora però, le due maggiori comunità cristiane ucraine – la Chiesa ortodossa autocefala (indipendente) di Kiev e la Chiesa greco-cattolica ucraina – vogliono distanziarsi dalla Chiesa ortodossa russa, che fin dal primo giorno di guerra si è schierata apertamente a favore dell’invasione, anche nella periodizzazione e stanno valutando la possibilità di rivedere i propri calendari.

Probabilmente la soluzione sarà quella già adottata dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e dalla maggioranza delle Chiese ortodosse autocefale: rivedere il calendario giuliano fino a farlo coincidere quasi esattamente con quello gregoriano e con la tradizione Occidentale. È importante notare che da un lato questa scelta avvicinerebbe Kiev ancora di più a quel mondo al quale la sua élite dice di voler appartenere: l’Europa e la Nato. Contemporaneamente, tuttavia, creerebbe una frattura non da poco nel solco di una tradizione secolare che fin dai tempi dal Medioevo aveva caratterizzato (e unito) i popoli slavi dell’Europa orientale. Ma la guerra di Putin ha determinato anche questa conseguenza: oltre a demonizzare la lingua e la cultura russa agli occhi del governo ucraino e dei suoi più accaniti sostenitori internazionali, sta modificando anche alcune delle consuetudini più radicate di un popolo.

LE FOTO DEI SOLDATI ucraini a lume di candela di fronte a lunghe tavolate apparecchiate con una parvenza di festività si sono rapidamente diffuse su internet e i messaggi delle alte cariche dello stato si sono susseguiti senza sosta. «Molti ucraini celebreranno il Natale a lume di candela» aveva detto Zelensky di fronte al congresso statunitense riunito in seduta plenaria proprio per accoglierlo mercoledì scorso, «ma non ci sarà nulla di romantico. Anche se non c’è elettricità, la luce della nostra fiducia in noi stessi non si spegnerà». Ma queste parole erano state pronunciate prima degli ultimi attacchi, ora l’eloquenza del presidente ucraino si è orientata verso la metafisica: «Non abbiamo bisogno di un miracolo, il miracolo siamo noi». Tuttavia, ancora una volta a pagare il prezzo più alto sono stati coloro i quali non combattono. Nonostante il sostegno americano e della Nato e nonostante i proclami di Zelensky e del suo governo che ribadiscono senza sosta che l’Ucraina non si arrenderà.

DURANTE QUESTI MESI ci è capitato più volte, come raccontato sulle colonne di questo giornale, di incontrare famiglie con bambini piccoli, anziani o disabili costretti a vivere nei garage, nelle stazioni della metro, nei sotterranei di fabbriche o di ospedali. Queste persone che scontano sulla propria pelle gli effetti dell’invasione russa sicuramente non partecipano all’ottimismo dell’amministrazione di Kiev. È difficile in un momento del genere soffermarsi sul fatto che anche soffrire in un periodo che è generalmente considerato di serenità e di vicinanza con i propri affetti in realtà è una rinuncia necessaria per raggiungere la vittoria. D’altronde sappiamo, perché ce lo dicono i resoconti quotidiani che arrivano dai fronti aperti, che il contesto nel quale sono costretti a vivere i civili peggiora progressivamente e in maniera sempre più drammatica.

NELLE CITTÀ PIÙ LONTANE dal fronte, Odessa e Leopoli ad esempio, l’arrivo dei generatori industriali ha permesso a qualche attività commerciale di restare aperta e quasi tutte hanno provato a rendere la cosiddetta «atmosfera natalizia», o almeno la sua versione marketing, installando vecchi Babbo natale e serie di led colorati. Il che rendeva quei luoghi, per quanto ordinari o anonimi, gli unici coni di luce in mezzo a strade altrimenti buie come la notte. Addirittura a Kherson le ragazze che gestiscono il caffè centrale hanno passato un pomeriggio, tra i boati delle esplosioni e le sirene del servizio d’emergenza, a gonfiare palloncini per coprire il tetto fatiscente. Chi entra rimane colpito da quei palloncini come se stonassero completamente con il contesto, quasi dimenticando che è la guerra a essere fuori contesto rispetto al consorzio umano e a imporre una normalità che non ha nulla di ordinario.

* Fonte/autore: Sabato Angieri, il manifesto



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