Myanmar. Dopo il golpe militare, ennesima condanna per San Suu Kyi

Myanmar. Dopo il golpe militare, ennesima condanna per San Suu Kyi

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La leader democraticamente eletta processata per corruzione. A niente è servita la risoluzione dell’Onu che invita la giunta a liberare i prigionieri politici

 

Nonostante il Consiglio di sicurezza dell’Onu abbia appena adottato in dicembre una risoluzione sul Myanmar, la prima in 75 anni, che chiede la fine delle violenze e invita i militari al potere a rilasciare tutti i prigionieri politici, inclusa la leader democraticamente eletta Aung San Suu Kyi, un ennesimo processo alla ex leader birmana l’ha appena condannata per corruzione a sette anni di carcere nell’ultima di una serie di udienze processuali che portano adesso a 33 anni di galera la pena da scontare.

LA NOBEL che per anni ha guidato la lotta democratica nel Paese ha 77 anni e dunque non dovrebbe più uscire dal carcere alla periferia della capitale Naypyidaw dove è stata trasferita nei mesi scorsi dopo l’arresto a Yangon. Arresto nei giorni immediatamente seguiti al golpe militare del 1 febbraio 2021 che ha destituito il suo esecutivo e rese nulle le elezioni del 2020 che ne avevano consolidato il consenso.

Secondo una fonte anonima citata dall’agenzia Afp, tutte le accuse – dal possesso di trasmittenti alle violazioni delle leggi sul Covid – sarebbero ora esaurite e dunque l’iter processuale sarebbe terminato. Difficile al momento capire se la giunta militare le concederà, in una parvenza di legalità, la possibilità di fare appello. Nell’ultimo caso, conclusosi ieri, la Lady è stata accusata di aver abusato della sua posizione causando perdite finanziarie allo Stato e di non aver seguito un iter corretto nel concedere il permesso a Win Myat Aye, membro del suo gabinetto, di acquistare e mantenere un elicottero.

LE REAZIONI come sempre non si son fatte attendere. Nel nostro Paese l’associazione Italia-Birmania Insieme riassume la posizione di chi considera questi processi una farsa legale espressione di illegittimi tribunali birmani che porta il totale delle condanne a «33 anni di carcere, di cui tre con lavoro forzato» dopo «una dozzina di accuse infondate, tra cui corruzione, frode elettorale, istigazione al disordine e violazione dei protocolli Covid-19». Un modo per «cancellare la leader birmana e il suo partito dalla scena politica, fino a quando la dittatura non verrà sconfitta definitivamente dalla forza della resistenza democratica birmana». L’ultima sentenza è, dice l’associazione, «un’ulteriore provocazione di fronte all’inefficacia delle istituzioni internazionali, dell’Asean e della Ue che, nonostante le numerose dichiarazioni di condanna, si sono sempre mosse con una profonda incertezza, divisione e debolezza politica». L’associazione chiede un cambio di passo e cioè che Italia e Ue riconoscano il Governo di Unità Nazionale (Nug, clandestino) e decidano di dare «un forte sostegno finanziario al Nug e alle organizzazioni della società civile e sindacali birmane». Da notare che il governo ombra non ha mai preteso l’invio di armi alla resistenza ma ha sempre chiesto solo sostegno finanziario.

ANCHE ALBERTINA SOLIANI, presidente dell’Istituto Cervi e Vicepresidente Anpi, già a capo dell’Associazione parlamentare Amici della Birmania, condanna «un processo illegale e immorale, come il colpo di Stato, gli arresti, le torture, le uccisioni» e ricorda sia la recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu, sia l’altrettanto recente decisione americana di destinare fondi alla resistenza: «Il Myanmar ha bisogno oggi di tutti noi».

Non c’è però molto al di là di queste voci o delle indagini di Ong birmane o di associazioni come Amnesty o Human Rights Watch. La Ue si è limitata a una condanna generica né la risoluzione dell’Onu fa menzione di un embargo sulle armi e sul carburante usato nei raid aerei militari che uccidono civili. Un blocco che dovrebbe estendersi – chiedono le Ong – anche alle assicurazioni e ai prodotti minerari come le gemme o le terre rare.

* Fonte/autore: Theo Guzman, il manifesto



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